(C) 2004 – Fabrizio Coppola
– Istituto Scientia
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Istituto Scientia
via Ortola 65
54100 MASSA
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scientia@astrophysical.org
Questo libretto è dedicato a
tutti coloro
che nel corso di due
millenni sono stati
consapevoli di essere Italiani.
11 Dicembre 2004
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!
Dante Alighieri, Purgatorio, Canto VI, 76-78 (1304-1320).
Chi è quell'Italiano, che abbia coraggio di
apertamente lodare
una manifattura, un ritrovato, una scoperta,
un libro d'Italia,
senza il timore di sentirsi tacciato di cieca
parzialità,
e di gusto depravato e guasto?
Gian Rinaldo Carli, La Patria degli Italiani (1765).
Come cadesti o quando
da tanta altezza in così basso loco?
Nessun pugna per te? Non ti difende nessun
de’ tuoi?
Giacomo Leopardi, All'Italia (1818).
Indice.
Cap. 1 –
Presentazione.
Cap. 2 – Quiz.
Cap. 3 – Breve
storia del nome Italia in 30 punti (1-30).
Cap. 4 – Breve
storia della lingua d’Italia in 30 punti (31-60).
Cap. 5 - Breve
storia del nome Italia nella letteratura, in 30 punti (61-90).
Cap. 6 -
Espansione degli argomenti riassunti nel cap. 3 (punti 91-150).
Cap. 7 -
Espansione degli argomenti riassunti nel cap. 4 (punti 151-180).
Cap. 8 –
Espansione degli argomenti riassunti nel cap. 5 (punti 181-200).
Cap. 9 –
Conclusioni.
Cap. 1 – Presentazione
Questo libretto è una semplice raccolta di notizie storiche, linguistiche e letterarie sul nome “Italia" a partire dal sesto secolo avanti Cristo. La sua lettura dovrebbe risultare facile e poco impegnativa poiché il suo autore non ha particolari competenze in storia o letteratura ma ha una formazione di matrice scientifica (matematica, statistica, fisica, astrofisica).
Perché allora ho voluto compilare questa raccolta? Il punto chiave è che desideravo avere una visione panoramica sulla storia del nome Italia ma non trovavo una sintesi adeguata alle mie esigenze, così ho provato a riassumere io stesso i punti essenziali della questione. E per quale motivo cercavo una panoramica sulla storia del nome Italia?
Oggi molte persone sono convinte che l’Italia sia una nazione "artificiale", creata nel 1861 in seguito ad uno strano capriccio chiamato “Risorgimento”, che unì forzatamente regioni diverse, con tradizioni e lingue separate (che oggi chiamiamo dialetti) ed impose un’unica lingua, l’italiano, che fino ad allora era quasi sconosciuto. Questa interpretazione si allontana molto da ciò che abbiamo imparato a scuola, ma molte persone la considerano realistica e vicina al buonsenso. Poco importa che la storia della letteratura dipinga l'Italia come un'unità culturale formatasi parecchi secoli prima del 1861: queste persone rispondono che ciò riguardava solo una piccola elite intellettuale, rispetto a cui la stragrande maggioranza della popolazione rimaneva estranea.
Per non fare la figura dell'ingenuo e per evitare di cadere anch'io nella trappola della retorica patriottica, iniziai a dar credito alla cruda visione realistica che non vede nulla di sostanziale e di concreto alla base dell'idea di "Italia". Tuttavia mi capitava spesso di sentire o di leggere casualmente delle notizie storiche che sembravano riproporre la validità della visione classica, quella che considerava l’Italia come un’entità culturale di antiche tradizioni. Queste rinnovate conferme, che tendevano a riportarmi verso l'ingenua concezione che avevo abbandonato, mi lasciavano perplesso. Per risolvere il dilemma, iniziai ad annotarle su uno specifico quaderno man mano che le sentivo o le leggevo.
Dopo un paio d'anni le informazioni che avevo pazientemente raccolto erano diventate decine, perciò mi proposi di riordinarle e di verificare la loro attendibilità: ebbene, risultavano essere tutte vere e ben documentate. Ma non basta: dopo averle riordinate e strutturate in modo opportuno, scoprii che esse formavano un quadro complessivo coerente, da cui l’Italia emergeva effettivamente come un’unità culturale dotata di tradizioni millenarie e forse anche di una vera dignità nazionale. In realtà alcune di queste notizie mi erano già note perché in qualche forma le avevo già studiate al liceo; tuttavia a quel tempo le avevo acquisite in modo frammentario e disordinato, perciò esse non contribuivano a formare nella mia mente un’idea chiara e complessiva sull’Italia ma rimanevano solo un ammasso di nozioni quasi scorrelate.
Così è nato questo libretto, che intende ricostruire la storia del nome Italia in modo obiettivo, riepilogando ed esponendo tutti i fatti significativi che, nel bene o nel male, l'hanno caratterizzata. Molti di questi fatti storici oggi sembrano dimenticati, ma non per questo sono meno veri o meno verificabili. Come vedremo, la visione tradizionale che ci hanno insegnato a scuola non è affatto ingenua o semplicistica, ma inaspettatamente risulta più realistica di quella alternativa, oggi prevalente, che tende a sottovalutare l'importanza dell'idea di Italia o addirittura a negarla. Direi perfino il contrario: la scuola non ha saputo darci un quadro generale sufficientemente chiaro e completo, forse perché si è focalizzata più sui particolari piuttosto che sul significato complessivo ed unitario che questi formano.
Riprenderemo questo discorso nel capitolo finale, dopo l'esposizione di ben 200 punti diversi sulla storia del nome Italia.
Cap. 2 – Quiz.
Per anticipare alcuni degli argomenti trattati nel libretto e per fornire così una panoramica generale, qui sotto vengono proposte 9 domande e poco più avanti vengono riportate le relative risposte. Il lettore può scegliere di affrontare le 9 domande come in un quiz oppure di leggere subito le risposte.
1)
In che anno comparve la prima moneta della storia con iscritta la parola
ITALIA?
A - 1220 - Regno d'Italia e di Sicilia di Federico II di Svevia, Palermo.
B - 887 - Regno d'Italia di Berengario I del Friuli.
C - 497 - Regno d'Italia di Teodorico, Ravenna.
D - 130 - Impero Romano di Adriano.
E - 90 a.C. -
Moneta degli Italici, Italica (oggi Corfinio).
2)
In che anno l'Italia fu per la prima volta organizzata o classificata in
"regioni"?
A - 1871 - Il Regno d'Italia è suddiviso in 18 regioni dopo la conquista del Veneto e del Lazio.
B - 1304 - Dante Alighieri nel "De Vulgari Eloquentia" classifica le 14 regioni d'Italia.
C - 673 - L'Italia viene divisa tra le regioni longobarde e quelle bizantine, per un totale di 16.
D - 292 - Diocleziano, Imperatore Romano, suddivide la "Diocesi italiciana" in 14 regioni.
E - 27 a.C. -
Cesare Ottaviano Augusto, il primo Imperatore Romano, suddivide l'Italia
(territorio metropolitano di Roma) in 11 regioni (escluse Sicilia, Sardegna,
Corsica).
3)
La prima classificazione dei dialetti italiani si ritrova nel seguente
testo:
A - 1928 – K. Jaberg e J. Jud - "Atlante dei dialetti d'Italia e della Svizzera Meridionale".
B - 1906 - Leopold Wagner - "Dialetti italiani e Sardi".
C - 1882 - Ascoli Graziadio Isaia, "L’Italia dialettale".
D - 1853 - Bernardino Biondelli - "Saggi sui dialetti gallo-italici".
E - 1304 -
Dante Alighieri - "De Vulgari Eloquentia".
4)
Un poeta definì l'Italia con queste parole: "Il bel paese
ch'Appennin parte [ripartisce] e il mar circonda e l'Alpe"; inoltre,
riferendosi alle Alpi, scrisse: "Ben provvide Natura al nostro stato,
quando dell'Alpi schermo pose fra noi, e la tedesca rabbia". Chi era?
A - Giacomo Leopardi (Recanati, Marche 1798 – Napoli 1837).
B - Vincenzo Monti (Alfonsine, Ravenna 1754 – Milano 1828).
C - Ugo Foscolo (Zante, Grecia 1778 - Londra 1827).
D - Galeazzo di Tarsia (Napoli 1520 - 1553).
E - Francesco
Petrarca (Arezzo 1304 – Arquà, Veneto 1374).
5)
La prima "Storia d'Italia" in lingua italiana fu scritta da:
A - Benedetto Croce (Pescasseroli, L'Aquila 1866 - Napoli 1952).
B - Pietro Giannone (Ischitella di Napoli 1676 - 1748).
C - Ludovico Antonio Muratori (Vignola, Emilia 1672 - Modena 1750).
D - Giambattista Vico (Napoli 1668 - 1744).
E - Francesco
Guicciardini (Firenze 1483 - 1540).
6)
Un grande filosofo italiano scrisse ad un grande scienziato italiano:
"E' gran vergogna che ci vincan le
nazioni che di selvagge avemo fatte domestiche ".
Quando è datata questa lettera e chi erano
il mittente e il destinatario?
A - 1898 - da Benedetto Croce a Guglielmo Marconi.
B - 1833 - da Pasquale Galluppi ad Amedeo Avogadro.
C - 1799 - da Cesare Beccaria a Alessandro Volta.
D - 1695 - da Giambattista Vico a Giovanni Domenico Cassini.
E - 1592 - da
Tommaso Campanella a Galileo Galilei.
7)
In quale grande poema l'Italia viene volta celebrata per la prima volta?
A - "Adone" di Giambattista Marino (Napoli 1569 - 1625).
B - "Gerusalemme liberata" di Torquato Tasso (Sorrento, Napoli 1544 - Roma 1595).
C - "L'Italia liberata dai Goti" di Giangiorgio Trissino (Vicenza 1478 - Roma 1550) .
D - "La Divina Commedia" di Dante Alighieri (Firenze 1265 - Ravenna 1321).
E -
"Eneide" (in latino) di Virgilio (Mantova 70 a.C. – Napoli 19 a.C.).
8)
Qual è la lingua usata a livello internazionale dai musicisti, fin dal
diciassettesimo secolo?
A - Francese
B - Tedesco
C - Inglese
D - Russo
E - Italiano
9) Quanti erano i meridionali nella Spedizione dei Mille di Giuseppe
Garibaldi, partita da Genova nel 1860?
A - Nessuno
B - Soltanto 11
C - Circa 30
D - Circa 200
Risposte.
Nei test effettuati finora, solo poche persone hanno saputo dare almeno 5 risposte esatte su 9.
La media generale si colloca sulle 2 o 3 risposte esatte. Questo indica che gli italiani hanno realmente necessità di riprendere coscienza delle loro origini e della loro storia.
Ecco in sintesi le 9 risposte esatte. Spiegazioni più dettagliate su ciascuna risposta saranno date nei capitoli successivi (nei punti specificati tra parentesi).
1 - F - 90 a.C. - Moneta degli Italici (v. punti 5; 95 e 101).
2 - F - 27 a.C. - Cesare Ottaviano Augusto
suddivide l'Italia in 11 regioni (punti
8 e 99).
3 - F - 1304 - Dante Alighieri - "De
Vulgari Eloquentia" (punti 16;
40; 41; 156; 157).
4 - F - Francesco Petrarca, 1304 – 1374 (punti 65 e 184).
5 - F - Francesco Guicciardini, 1483 – 1540
(punti 18 e 70).
6 - F - 1592 - da Tommaso Campanella a
Galileo Galilei (punto 20).
7 - F - "Eneide" di Virgilio, 70
a.C. – 19 a.C. (punti 8; 62; 181).
8 - E - Italiano (punti 21; 54; 167; 168).
9 - E - Circa 200, soprattutto siciliani (i campani erano più dei piemontesi;
v. punti 26 e 146).
Cap. 3 – Breve storia del nome Italia in 30
punti
(gli argomenti qui riassunti verranno espansi nel capitolo 6).
1 - Il nome Italia inizia ad essere usato nel sesto secolo avanti Cristo e si riferisce solo alla regione che oggi chiamiamo Calabria.
2 - Nel quinto secolo a.C. lo storico Antioco di Siracusa scrive un saggio sull'Italia, che comprende già tutte le regioni meridionali, e fa derivare il suo nome da un leggendario Re Italo.
3 - Nel terzo secolo avanti Cristo il nome Italia si è già esteso alle regioni del Centro e comprende così l'intera penisola, intesa nel senso geografico del termine.
4 - Secondo alcuni autori Romani del secondo secolo avanti Cristo, il nome Italia comprende anche le regioni del nord. Le Alpi infatti sono le montagne più alte d'Europa e rendono l'Italia quasi un'isola rispetto al resto del continente.
5 - Intorno al 90 a.C. gli Italici coniano la prima moneta della storia su cui figuri il nome ITALIA, iscritto nei caratteri romani che usiamo ancora oggi. Nell'88 a.C. gli Italici ottengono la cittadinanza romana.
6 - Nell'81 a.C. Silla attribuisce al nome Italia un significato politico ufficiale, che comprende le regioni peninsulari e la Liguria.
7 - Nel 45 a.C. Giulio Cesare include nel territorio d'Italia le altre regioni del nord.
8 - Nel 27 a.C. l'imperatore Cesare Ottaviano Augusto suddivide l'Italia in 11 regioni (v. punto 99). Pochi anni dopo lo storico e geografo Strabone afferma: "tutti gli Italiani sono ormai Romani". Il resto dell'Impero Romano è suddiviso in province, che non hanno la cittadinanza romana. La Sicilia, la Sardegna e la Corsica per adesso rimangono ancora province esterne all'Italia. In quest'epoca Virgilio scrive l’Eneide, in cui celebra l’Italia e le origini di Roma (v. punto 181). Sopra l’attuale Principato di Monaco i Romani costruiscono il Trofeo della Turbia, dove si legge l'iscrizione: "Huc usque Italia, abhinc Gallia" (“Fin qui l'Italia, da qui la Gallia”).
9 - Nel 77 d.C. Plinio il Vecchio descrive l'Italia nel libro III della sua Naturalis Historia e afferma: "Questa è l'Italia sacra agli dei" (v. punto 183).
10 - Nell'anno 292 dopo Cristo viene formata la "Diocesi Italiciana", che comprende anche la Sicilia, la Sardegna e la Corsica.
11 - Nel quinto secolo d.C. l'Impero Romano collassa sotto le invasioni barbariche e si riduce alla sola Italia. Nel 476 d.C. Odoacre pone fine all'Impero e si dichiara Re d'Italia: inizia il Medio Evo. Nel 493 l'ostrogoto Teodorico destituisce Odoacre e diventa Re d'Italia al suo posto.
12 - Tra il 535 e il 553 Giustiniano, Imperatore Bizantino, riconquista l'Italia e afferma: "Italia non provincia sed Domina provinciarum" ("L'Italia non è una provincia ma è la Signora delle province").
13 - Nel 568 i Longobardi invadono gran parte dell'Italia, che così perde la sua unità territoriale e nei decenni successivi si ritrova spezzettata tra Bizantini (con capitale Ravenna) e Longobardi (con capitale Pavia). Rimangono possedimenti bizantini la Romagna, l'Istria, le Marche, la zona di Roma, gran parte del Sud, la Sicilia, la Sardegna e la Corsica.
Diventano Longobarde la maggior parte del nord (tranne la Romagna e l'Istria), la Toscana, il Ducato di Spoleto e il Ducato di Benevento (quest’ultimo comprende l'Abruzzo, la parte interna della Campania e la Lucania).
14 - Nell'800 Carlo Magno costituisce il Sacro Romano Impero, che comprende il Regno d'Italia. L'Impero però inizia presto a perdere territori: tra il dodicesimo e il tredicesimo secolo il Sacro Romano Impero comprende solo la Germania con poche aree limitrofe e con l'Italia centro-settentrionale. Per giunta diverse città italiane rivendicano la loro autonomia: nascono così i Liberi Comuni e le Repubbliche Marinare. Nel 1176 la Lega Lombarda, formata da varie città del nord ed appoggiata dal Papa e dalla Sicilia, sconfigge temporaneamente l'imperatore Federico Barbarossa.
15 - Intorno al 1220 l'Imperatore Federico II di Svevia, nipote del Barbarossa, diventa Re d'Italia e di Sicilia. Alla sua corte di Palermo nasce la "Scuola Siciliana", che costituisce la prima scuola poetica della letteratura italiana. I poeti siciliani non scrivono in latino, che ormai pochi capiscono, bensì in "lingua volgare", quella del popolo (anche se molto ripulita). Il risultato è una lingua simile all'italiano attuale, che verrà ripresa dai poeti dello Stil Novo, tra cui Dante.
16 - Dante Alighieri si propone di definire un "volgare illustre" comune a tutte le regioni d'Italia, e per far questo estrae il meglio dagli autori che avevano scritto in volgare fino ad allora. Nel "De Vulgari Eloquentia" egli descrive le 14 principali parlate regionali d’Italia ed evidenzia le caratteristiche comuni su cui deve fondarsi l'unico "volgare illustre" (punti 40; 41; 156; 157). Nella "Divina Commedia" e in altri scritti Dante lascia in eredità un patrimonio vastissimo ed esemplare del "volgare illustre". Perciò il suo lavoro risulta completo sia da un punto di vista teorico che pratico e di fatto codifica la lingua italiana. In alcuni suoi scritti egli descrive anche la triste situazione in cui trova l’Italia nella sua epoca (v. punti 63 e 183).
17 - A partire dal 1300, il "volgare illustre" di Dante, cioè la lingua italiana, si diffonde sempre più, e intorno al 1500 inizia a sostituire il latino come lingua ufficiale dei vari Stati Italiani.
18 - Nel 1503 vi è la Disfida di Barletta: 13 cavalieri italiani sfidano 13 cavalieri francesi che avevano denigrato gli italiani. L'episodio è riportato da Guicciardini nella "Storia d'Italia" (1535-1539) ed è celebrato da Massimo D’Azeglio nel romanzo "Ettore Fieramosca da Capua" (1833) . La disfida si conclude con una schiacciante vittoria degli italiani (v. punti 124 e 125).
19 – L’arte italiana durante l'Umanesimo e il Rinascimento (e più in generale dal 1300 fin oltre il 1600) produce opere di bellezza ineguagliabile. Tra i colossi della pittura, della scultura e dell’architettura possiamo ricordare Botticelli, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Palladio, Caravaggio, Bernini. Oggi l'Italia possiede il 60% del patrimonio artistico mondiale! Tutte le altre nazioni messe assieme (tra cui figurano nomi come Grecia, Egitto, India, Cina, Francia, Spagna...) posseggono il restante 40%. L’Italia è anche la nazione col maggior numero di luoghi dichiarati dall’UNESCO "Patrimonio dell'umanità", in totale 39, ma è seguita a ruota dalla Spagna, con 37. Tornando al Rinascimento, Leonardo fu anche matematico e ingegnere e dev’essere considerato il predecessore di Galileo Galilei, fondatore della scienza moderna. Tra i filosofi è inevitabile ricordare Giordano Bruno e Tommaso Campanella, la cui importanza risulta decisiva per la nascita della filosofia moderna. Il Rinascimento Italiano conta anche molti importanti matematici.
20 - Nei primi decenni del 1600 inizia un certo declino per l'Italia, che era stata per 15 secoli il faro della civiltà europea (v. punto 133). Altre nazioni invece progrediscono rapidamente verso alti livelli di civiltà e benessere (soprattutto Francia, Inghilterra, e Stati Germanici). Uno dei primi sintomi della decadenza si trova in una lettera che il filosofo Tommaso Campanella (Stilo, Calabria, 1568 - Parigi 1639) scrive nel 1592 al giovane Galileo Galilei (Pisa 1564 - Firenze 1642). Campanella commenta in questo modo il successo del modello astronomico del Polacco-Tedesco Copernico: "è gran vergogna che ci vincan le nazioni che noi avemo di selvagge fatte domestiche". Campanella sottolinea però che Copernico aveva studiato a Ferrara.
21 - Nonostante la decadenza culturale e civile dell'Italia, nel diciassettesimo secolo la lingua italiana si afferma come la lingua standard della musica. Ancora oggi la maggior parte dei termini utilizzati dai musicisti di tutto il mondo sono in italiano (malgrado l'incalzare della lingua inglese nella musica moderna). V. punti 54; 167; 168.
22 - Alla fine del '700 si manifestano i primi segni del Risorgimento Italiano. Nel 1797 a Reggio Emilia uno degli Stati satelliti creati in Italia da Napoleone, la Repubblica Cispadana, adotta la bandiera tricolore, che poi diventerà la bandiera d'Italia. Vengono considerati primi segni del Risorgimento Italiano anche la Repubblica Romana (1798) e la Repubblica Partenopea (1799).
23 - Nel 1802 Napoleone si proclama Presidente d’Italia, e poi Re nel 1805. Ma il suo Regno d'Italia comprende solo il Nord e dura pochi anni. Nel 1814 lo stesso Napoleone, prigioniero all'isola d'Elba, dichiarerà di voler riunificare l'Italia (v. punto 139).
24 - Nel 1814 Gioacchino Murat, Re di Napoli e cognato di Napoleone, nel "Proclama di Rimini” inneggia all'unificazione e all'indipendenza d'Italia (v. punti 140 e 141). Ma pochi mesi dopo, la Restaurazione ad opera del Congresso di Vienna riporta tutto come prima. Il ministro austriaco Metternich spegne le speranze dei patrioti italiani con un'affermazione che oggi viene spesso abbreviata in questi termini: "L'Italia è solo un'espressione geografica". In realtà l’affermazione originale di Metternich è più completa e meno drastica (v. punto 143).
25 - Per non dare un'impressione di parte, la nostra panoramica storica salterà gran parte del Risorgimento, che in senso stretto dura dal 1847 al 1870, ma in senso lato si può estendere dal 1797 al 1918. Dovremo comunque riportare alcuni fatti fondamentali e fare alcune precisazioni significative su alcuni fatti oggi spesso dimenticati (punti 25-28 e 145-148).
25 – Nel 1848 i milanesi si ribellano ai dominatori Austriaci e riescono a scacciarli dalla città (Cinque giornate di Milano). Subito dopo il Piemonte intraprende la prima guerra di Indipendenza contro l'Austria per liberare tutto il Lombardo-Veneto, ma gli Austriaci hanno il sopravvento e riconquistano anche Milano. Questa guerra rimane comunque un caposaldo del Risorgimento, sia per il coinvolgimento del popolo lombardo, sia perché vi partecipano volontari di altre regioni italiane, tra cui spiccano Toscana e Campania (v. punto 145).
26 - Nella seconda guerra di Indipendenza, combattuta nel 1859 contro l'Austria e col sostegno della Francia di Napoleone III, il Piemonte conquista la Lombardia e annette altre regioni del Centro-Nord. Nel 1860 la spedizione dei Mille, guidata da Garibaldi, conquista il Meridione d'Italia. Qualcuno oggi crede che i Mille fossero quasi tutti Settentrionali; in effetti vi erano moltissimi lombardi e veneti, ma erano rappresentate tutte le regioni d'Italia. I meridionali erano almeno duecento (v. punto 146).
27 - Nel 1861 a Torino viene proclamato il Regno d'Italia (che non comprende ancora Roma e le Venezie). Nel 1866, con la Terza Guerra d'Indipendenza, l'Italia conquista il Veneto (ma non Trento e Trieste). Quindi nel 1870 conquista Roma, che diventa Capitale d’Italia.
28 – Nei decenni successivi gli "irredenti" di Trento e Trieste, città rimaste sotto il dominio austriaco, aspirano al congiungimento con l'Italia. Questo porterà l'Italia ad entrare nella Prima Guerra Mondiale (1915) e a conquistare questi territori.
29 – Prima guerra mondiale: la data della vittoria è il 4 Novembre 1918. Oltre a Trieste e al Trentino, l'Italia ottiene il Carso e l'Istria, dove vivono delle minoranze Slave, e il cosiddetto Alto Adige, che in realtà è una provincia austriaca a tutti gli effetti, chiamata Sud-Tirolo: si tratta dell’attuale provincia di Bolzano (v. punto 149).
30 - In seguito alla Seconda Guerra Mondiale, nel 1945 l'Italia subisce dei tagli territoriali, molto piccoli ad Ovest, a favore della Francia (Briga, Tenda e piccolissime altre zone), ma notevoli ad Est, a favore della Jugoslavia (Carso, Istria, Dalmazia). V. punto 150.
Cap. 4 – Breve storia della lingua d’Italia
in 30 punti
(gli argomenti qui riassunti verranno espansi nel capitolo 7).
31 - La lingua italiana nasce nel Medio Evo in seguito alla graduale decadenza del latino. La nuova lingua si struttura sul linguaggio "volgare", cioè quello realmente parlato dal popolo, che però viene opportunamente ripulito e raffinato: per questo motivo Dante lo definisce “volgare illustre”. De Sanctis, nella sua "Storia della letteratura italiana", sostiene che la nostra lingua è l'erede naturale del linguaggio parlato nell’antica Roma dalle classi popolari, con l’influenza delle preesistenti lingue italiche (che presentavano già diverse affinità tra di loro).
32 - I primi scritti che contengono delle evidenti contaminazioni in "volgare" compaiono intorno all’anno 800 e sono "l'indovinello veronese" e tre “documenti pisani”.
33 - Il primo scritto vero e proprio in volgare è contenuta nella "Carta Capuana", o "Placito di Capua" (Marzo 960), in cui viene riportata la dichiarazione di un testimone durante un processo (v. punto 151).
34 - La letteratura italiana annovera alcuni autori precedenti a Dante, tra cui San Francesco d'Assisi, che nel 1224 scrisse il famoso "Cantico delle Creature" (v. punto 152)
35 - Nel tredicesimo secolo parecchi autori delle varie regioni italiane (del Nord, del Centro e del Sud) scrivono nei rispettivi "volgari": i più importanti sono i siciliani, a partire da Cielo o Ciullo d'Alcamo, seguiti dai toscani.
36 – A Palermo fiorisce la "Scuola Siciliana", la prima scuola poetica della letteratura italiana. Il suo maggiore esponente è Giacomo (o Iacopo) da Lentini (1200 - 1250), inventore del sonetto. Altri poeti importanti sono Rinaldo D'Aquino, Pier della Vigna, Guido e Odo delle Colonne, Giacomino Pugliese, Protonotaro di Messina, Folco di Calabria, Arrigo Testa di Arezzo (non tutti erano siciliani: alcuni provenivano da altre regioni d’Italia). Il linguaggio è molto ripulito e risulta già simile all'attuale lingua italiana (v. punto 153).
37 - Tra gli autori del duecento vi sono anche poeti del nord, come Bonvesin della Riva, Giacomino da Verona ed altri; e del Centro Italia, come Jacopone da Todi, Cecco Angiolieri, Guittone d'Arezzo ed altri toscani (v. punti 154 e 155).
38 - Tra il 1250 e il 1300 fiorisce il "Dolce Stil Novo", soprattutto in Toscana e a Bologna. I principali stilnovisti furono Guido Cavalcanti, Guido Guinizzelli e Dante Alighieri. Essi riconobbero il valore della Scuola Siciliana e continuarono lo sviluppo di una lingua "volgare" di portata nazionale, che sostituisse il latino, troppo difficile e accademico.
39 - I poeti della Scuola Siciliana scrivevano già in un "volgare" molto "italianeggiante", perciò ci possiamo chiedere come scriveva un siciliano che all'epoca non aveva ancora una visione nazionale ma solo regionale. Ebbene, si legga l'esempio della "Maniscalchia di li caualli" nel punto 160, che risulta abbastanza comprensibile, quasi come il siciliano scritto oggi dallo scrittore Andrea Camilleri (anche se la sua lettura non risulta agevole per tutti).
40 - Dante Alighieri (Firenze 1265 - Ravenna 1321) rappresenta una pietra miliare per la letteratura e per la lingua italiana, che egli tentò di "standardizzare", riuscendo perfettamente nell'intento. La sua opera infatti è completa sia dal punto di vista teorico ("De Vulgari Eloquentia") che pratico ("Divina Commedia" e altri scritti in "volgare").
Il "De Vulgari Eloquentia", scritto in latino nell'anno 1304, illustra le potenzialità del nuovo "volgare illustre" comune a tutte le regioni italiane. Le opere in volgare, scritte da Dante fin dal 1283, donano agli italiani un vasto patrimonio che rimarrà di esempio per tutti i secoli successivi. Nei primi anni egli è un poeta dello "Stil Novo". La sua prima opera completa è la "Vita nuova", del 1292. Ma il poema che lo renderà immortale è la "Divina Commedia", scritta tra il 1304 e il 1320, in cui descrive il suo viaggio nell'Inferno e nel Purgatorio (attraverso i quali viene guidato da Virgilio) e nel Paradiso. In questo capitolo, che riguarda gli aspetti linguistici dell'Italia, parleremo soprattutto del "De Vulgari Eloquentia" (DVE).
41 - Il "De Vulgari Eloquentia" (DVE, anno 1304) è un breve trattato scritto in latino, come pretende la prassi accademica dell'epoca (l'utilizzo del latino in Italia e in Europa si estinguerà totalmente solo dopo il 1700). Nel DVE Dante spiega l'utilità dello scrivere in lingua "volgare", quella parlata e capita dal popolo, purché si tratti di un volgare "illustre" e "non municipale", cioè una lingua ripulita e di vasta portata, cioè non locale come i dialetti, ma comune a tutta l’Italia. Dante indica chiaramente i confini del nuovo "volgare illustre", che sono esattamente i confini dell'Italia geografica (che egli in quest'opera chiama "Ytalia" o anche "Latium", cioè Lazio). Quindi egli descrive le 14 parlate principali d'Italia, di cui 7 ad Est degli Appennini e 7 ad Ovest, evidenziandone le caratteristiche comuni ed esponendone apertamente i difetti: infatti li analizza uno per uno e ne critica gli aspetti più rozzi, deprecando anche l'uso dei vocaboli esclusivamente "locali", cioè non usati nelle altre regioni. Sottolinea comunque che ciascun "volgare" contiene in sé quello "illustre", anche se in forma virtuale, parziale, acerba, non pienamente sviluppata.
42 - La lingua regionale più distante dalla lingua nazionale secondo Dante è quella Sarda. Questo viene riconosciuto anche oggi da tutti i glottologi, secondo i quali, se si escludono i dialetti del nord della Sardegna (che sono chiaramente italici), il Sardo potrebbe costituire una lingua a sé. Dante tuttavia aggiunge che i Sardi, se devono essere ricondotti ad un altro popolo, possono essere associati solo agli italiani, così come "le scimmie imitano l'uomo". Questa affermazione è stata considerata offensiva da alcuni commentatori Sardi di varie epoche: ma in realtà Dante, per un motivo o per l'altro, è altrettanto crudo nei confronti anche di altre regioni (compresa la sua Toscana). L'apparente acidità di Dante nasconde in realtà un profondo attaccamento all'Italia, senza il quale non avrebbe certamente scritto il DVE. Per un approfondimento si veda il punto 157.
43 - Dopo Dante, la letteratura italiana fu illuminata da altri due grandi Toscani, che adottarono il "volgare illustre" indicato da Dante: Francesco Petrarca (Arezzo 1304 – Arquà, Veneto, 1374), che viaggiò molto in Italia e nel Sud della Francia, v. punto 184; e Giovanni Boccaccio (Firenze o Certaldo 1313 - Firenze 1375), che visse lungamente a Napoli (nel sonetto "Napoli e Firenze" rivela che avrebbe voluto rimanerci, ma il padre lo richiamò a Firenze). Grazie a questi grandi autori, nei secoli seguenti si identificò la nuova lingua italiana con il "toscano", anche se lo stesso Dante aveva negato (nel DVE) che la lingua illustre fosse o dovesse essere "toscana", poiché egli la ritrovava in forma già quasi compiuta in poeti e scrittori di altre regioni (v. punto 157). Occorre sottolineare che furono toscani anche importanti autori del '400 (come Luigi Pulci, Angelo Poliziano e Lorenzo il Magnifico).
44 - Per dare un'idea di una lingua regionale del 1300 non ancora "toscanizzata" possiamo citare ciò che i romani gridavano ai cardinali che nel 1378 dovevano eleggere il nuovo Papa (fu il conclave più breve della storia): "Romano lo volemo, o almanco Italiano". Fu eletto Bartolomeo da Prignano, arcivescovo di Bari, che prese il nome di Urbano VI.
Una curiosità: l'ultimo papa non italiano (prima di Giovanni Paolo II, cioè papa Wojtyla, eletto nel 1978) fu Adriano VI, olandese, eletto nel 1522.
45 - Nel 1400 altri scrittori italiani scrivevano in un volgare sicuramente "illustre" ma non esattamente "standardizzato" sulle linee indicate da Dante, Petrarca e Boccaccio (cioè, come si direbbe oggi, in un volgare non ancora “toscanizzato"). Un importante esempio, riportato nel punto 161, è quello di Masuccio Salernitano, pseudonimo di Tomaso dei Guardati (Salerno 1410 - 1475), che ispirandosi ad una leggenda di Siena scrisse un racconto con protagonista Mariotto e Ganozza (novella 33 dal "Novellino"). Questa a sua volta ispirò il veronese Luigi Da Porto (1524) a scrivere "Giulietta e Romeo", poi ripreso da William Shakespeare (1591).
46 - Storicamente il primo autore non toscano che adottò esattamente la lingua codificata da Dante, Petrarca e Boccaccio, fu Jacopo Sannazzaro, scrittore napoletano di origine lombarda (Napoli 1456-1530), autore dell'Arcadia. Invece un altro grande letterato napoletano dell'epoca, Giovanni Pontano, volle scrivere solo in latino, precludendosi così una maggiore fama. Tornando a Sannazzaro, egli eliminò i "puri napoletanismi" dai suoi scritti e adattò le parole allo standard "toscano". Per questo motivo viene considerato un autore di importanza fondamentale, mentre altri (come Masuccio Salernitano) vengono giudicati ancora troppo "impuri" e regionali (v. punti 161 e 162). Pressocché contemporaneo a Sannazzaro fu l'emiliano Matteo Maria Boiardo (Scandiano 1441 - Reggio Emilia 1494), autore dell'Orlando Innamorato.
47 - Giangiorgio (o Giovan Giorgio) Trissino (Vicenza 1478 - Roma 1550), famoso per il suo poema epico "L'Italia liberata dai Goti" (1547) e per aver scoperto il genio dell’architetto Andrea Palladio, evidenziò l'enorme importanza del "De Vulgari Eloquentia" di Dante, che paradossalmente era rimasto in secondo piano a causa dell'enorme successo della Divina Commedia. Ricordò così che la lingua italiana non doveva essere "toscana" ma comune a tutte le regioni (come Dante stesso aveva esplicitamente dichiarato). V. punti 157 e 164.
48 - Intorno al 1530 l'Imperatore Carlo V dichiara di parlare "Italiano alle donne, Francese agli uomini, Spagnolo a Dio, Tedesco al suo cavallo". Una nota curiosa: sarà una coincidenza strana, ma oggi il tedesco è la lingua universalmente usata per ammaestrare i cani (avrà qualche potere particolare sugli animali?), così come l'italiano rimane la lingua universale in campo musicale (nonostante l'incuria degli italiani stessi e l'enorme progresso della lingua inglese nella musica moderna e nella strumentazione elettronica). V. punti 54; 167; 168.
49 - Il frate e filosofo Giordano Bruno (Nola, Campania 1548 - Roma 1600) scrisse varie opere in latino e in italiano. Tra le opere in italiano ricordiamo la commedia “Candelaio”, pubblicata nel 1582 a Parigi; ed i “Sei dialoghi filosofici”, pubblicati nel 1584 a Londra (tra cui tre importantissimi: “De l'infinito, universo et mondi”; “Spaccio de la bestia trionfante”; “De gl'heroici furori”). Abbiamo citato solo questi testi di Bruno perché ben dimostrano che la lingua italiana era ben conosciuta già secoli prima dell’Unità d’Italia, anche a livello internazionale. Infatti questi testi furono scritti in italiano nel ‘500 (quando il latino era ancora largamente usato in campo filosofico), per giunta da un autore del Sud (dove la resistenza del latino era più forte) e furono pubblicati all’estero (Parigi e Londra). Eppure oggi alcune persone sostengono che prima dell’unità d’Italia (avvenuta nel 1861) la lingua italiana era sconosciuta perfino in Italia e che essa ha iniziato a diffondersi veramente solo dal 1954 in poi, grazie alla televisione. In realtà queste affermazioni superficiali e affrettate confondono due questione diverse. E’ vero che la diffusione capillare della lingua illustre tra le classi popolari è mancata per secoli ed ha costituito un ben noto problema sociale. Ma non è lecito utilizzare a sproposito questa argomentazione per negare l’esistenza di una realtà culturale (sia pure ristretta) che vanta una tradizione secolare. Questo tema sarà ripreso nel capitolo 9.
50 - Nel 1583 a Firenze viene fondata l'Accademia della Crusca, per la codificazione della corretta lingua italiana sulla tradizione indicata da Dante, Petrarca e Boccaccio. Una delle prime attività dell'Accademia fu la stesura del "Vocabolario", che fu stampato nel 1612 a Venezia. Nonostante alcune polemiche (soprattutto per il suo eccessivo "fiorentinismo"), il Vocabolario riscosse un grande successo, non solo in Italia, ma anche all'estero, e fu fu preso come modello per la redazione dei vocabolari di altre lingue nazionali. Per fortuna il rigore della Crusca non impedì il diffondersi di vocaboli regionali, contribuendo così alla ricchezza della lingua italiana. Ricordiamo per esempio che le due parole oggi più conosciute nel mondo sono "Pizza", di origine napoletana, e "Ciao", di origine veneziana (v. punto 164).
51 - Se da una parte la Crusca fu eccessiva nel suo rigore e nel suo tendenziale "fiorentinismo", alcuni autori esagerarono in senso opposto e si preclusero una grande fama poiché preferivano scrivere nel loro linguaggio regionale. Il caso più notevole fu quello di Giambattista Basile (Napoli 1575 - 1632), dotato di grande talento, che scrisse poche opere in “italiano standard” e moltissime in volgare napoletano. Invece il suo conterraneo Giambattista Marino (Napoli 1569-1625), scrivendo in "italiano standard", riscosse un successo enorme in tutta Italia e diventò il maggior poeta del '600 (v. punto 163). Il suo stile pomposo (“marinismo”) però non piacque a tutti: ad esempio Francesco Fulvio Frugoni (Genova 1620 - 1689) nel "Cane di Diogene" scrisse una breve satira intitolata "Contro la lingua del '600", in cui criticava le trasformazioni e le forzature subite dallo stile della letteratura italiana del suo tempo a causa del dilagante marinismo.
52 - Nel punto 19 avevamo ricordato le altezze raggiunte dagli artisti italiani nel Rinascimento. Un altro fenomeno tipicamente italiano nato in quest'epoca e poi durato un paio di secoli è la "Commedia dell'Arte", una forma di teatro popolare basata sull’improvvisazione e su famosissime maschere (come il bergamasco Arlecchino, il napoletano Pulcinella e molte altre). Le compagnie che lo rappresentavano viaggiavano in tutta Italia e anche all'estero, ed influenzarono la tradizione teatrale di varie nazioni europee (soprattutto quella francese).
53 – Poco dopo il 1700 l'uso del latino scompare definitivamente (anche nel Sud d’Italia, dove aveva resistito più a lungo: si pensi a Pontano, punto 46). Una delle ultime opere in latino risale al 1710 ed è il "De antiquissima italorum sapientia" del filosofo Giambattista Vico (Napoli 1668 - 1744). Negli anni successivi Vico scriverà esclusivamente in italiano. Anche gli scritti "ufficiali" sono ormai in lingua italiana. Ad esempio Pietro Giannone (Ischitella di Napoli, 1676-1748) nel 1723 scrive "Istoria civile del Regno di Napoli".
54 - Già prima del 1700, la lingua italiana si afferma a livello internazionale come la "lingua della musica". I termini musicali infatti sono quasi tutti in italiano (solo una minoranza sono in francese, in tedesco o in latino). Si pensi a parole di fama internazionale come "concerto", "finale", "opera", "orchestra", "pianoforte" (in inglese "piano"), o di scrittura musicale come "adagio", "andante", "allegro", "crescendo", "da capo", "forte", "piano", eccetera. Ancora oggi la maggior parte dei termini musicali rimangono in italiano. L'importanza della lingua italiana per la musica non si limita alla notazione degli spartiti o ai nomi degli strumenti: spesso fu impiegata anche per i testi cantati: ad esempio Mozart, come altri autori stranieri, preferiva scrivere opere liriche il cui "libretto" fosse in italiano (v. punti 167 e 168).
55 - Tra il 1600 e il 1900 gli italiani primeggiarono non tanto nella musica classica strumentale (Cimarosa, Scarlatti, Vivaldi, Paganini...), dove complessivamente furono superati dai tedeschi, bensì nella musica lirica (Rossini, Donizetti, Verdi, Bellini, Puccini...).
56 - Carlo Goldoni (Venezia 1707 - Parigi 1793) scrisse celebri commedie, sia in versione dialettale (veneta), sia in versione "nazionale" (in italiano), dove si incontrano personaggi di varie parti d'Italia. Per esempio i due protagonisti della commedia "La bottega del Caffè", ambientata a Venezia, sono uno torinese e l'altro napoletano (e a un certo punto iniziano a discutere sulla bellezza delle rispettive città). La celebre "Locandiera" è ambientata a Firenze e anche qui si incontrano personaggi di diverse regioni, così come in altre commedie. Nei coloriti dialoghi di Goldoni i protagonisti si danno del tu, del voi o del lei a seconda della condizione sociale. Goldoni superò gli schemi tradizionale della "Commedia dell'arte" (v. punto 52) e diventò famoso anche all’estero. Fu invitato a Parigi dal Tèâtre-Italien e vi rimase gli ultimi anni della sua vita.
57 - Sarebbe impossibile qui citare tutti gli autori stranieri che fecero citazioni in lingua italiana ben prima dell'Unità d'Italia (senza ovviamente considerare i musicisti, v. punto 168). Per esempio io mi interesso di filosofia idealistica e ho constatato che il filosofo americano Ralph Waldo Emerson riportava spesso parole o intere frasi in italiano (per esempio nel libro "Nature", scritto nel 1836). Inoltre nei testi degli idealisti tedeschi, come Schelling ed Hegel (scritti tra il 1790 e il 1820 circa) si trovano varie citazioni sull'Italia e sugli italiani. Schelling riconobbe che la sua filosofia doveva moltissimo a Giordano Bruno (v. punto 49). Hegel riteneva che il popolo tedesco avesse ereditato la missione di civilizzare il mondo, ma riconobbe dei pregi anche ad altri popoli: ai francesi la cultura; agli inglesi il "sentimento aristocratico della loro individualità"; agli italiani "il primato nel campo dell'arte". Sull’altra sponda Schopenhauer, grande avversario degli idealisti, intorno al 1830 criticò la lingua francese (che a quell’epoca era considerata la lingua internazionale e dominava l’Europa) definendola: “...miserrimo gergo romanzo, pessima mutilazione di parole latine, lingua che dovrebbe guardare con profondo rispetto alla sua più antica e assai più nobile sorella, l’italiano...” (in realtà il francese viene considerato dai linguisti più antico dell’italiano di due secoli, ma evidentemente Schopenhauer non si riferisce alla nascita formale della lingua italiana ma alle sue origini popolari, che possono essere già rintracciata nell’Italia dell’epoca romana). In generale furono molti gli autori stranieri che in quell’epoca parlarono dell'Italia e degli italiani (v. punti 75; 81; 187; 188; 190).
58 - Basilio Puoti (Napoli 1782 - 1847) fu amico di Giacomo Leopardi ed uno dei più grandi puristi della lingua italiana. Puoti raccomandava ai suoi discepoli (tra cui Francesco De Sanctis e Luigi Settembrini): "Se io vi dico di scrivere la vera lingua d’Italia, io voglio avvezzarvi a sentire italianamente e avere in cuore la patria nostra... Io vorrei che gli Italiani parlassero come il Machiavelli ed operassero come il Ferruccio". Il riferimento al “Ferruccio” (Francesco Ferrucci, v. punto 135) verrà ripreso da Mameli nell'inno "Fratelli d'Italia" (punto 195).
59 – Poniamoci una domanda forse troppo teorica, ma sicuramente interessante: se Dante e la Toscana non fossero esistiti, la lingua italiana sarebbe nata ugualmente? Presumibilmente sì: se si leggono i numerosi esempi riportati nel capitolo 7 si può dedurre che i vari volgari delle regioni d'Italia sarebbero comunque confluiti in un'unica lingua (anche se con un processo più lento e difficile). Alcune persone però non condividono questa risposta e obiettano che questo ragionamento è solo teorico e non ha una reale validità: in parole prove, "manca la controprova". Ma nei punti 171 e 172 vedremo che inaspettatamente una "controprova" di questo tipo esiste davvero.
60 – Nella classifica delle lingue in base al numero di parlanti, l’italiano attualmente si colloca solo al diciannovesimo posto nel mondo (anno 2004). L'inglese è solo terzo, dopo cinese e spagnolo. Ma se si considera il numero persone che nel mondo studiano le varie lingue, ovviamente l’inglese sale al primo posto. Ebbene, sorprendentemente in questa classifica l'italiano risulta la quarta lingua al mondo. Maggiori dettagli sono riportati nel punto 180.
Cap. 5 - Breve storia del nome Italia nella
letteratura, in 30 punti.
(gli argomenti qui riassunti verranno espansi nel capitolo 8).
Avvertenza. Questa è una sintesi estrema che
riguarda la presenza del nome Italia e dell’italianità nella letteratura. Non
può certamente essere considerata (neanche lontanamente) un riassunto della
letteratura italiana. Gli argomenti naturalmente sono intrecciati con quelli
dei capitoli 4 e 7.
61 - L'Italia viene citata spesso dagli antichi autori Greci e Latini (v. punti 92 e 95). Per giunta nel primo secolo avanti Cristo diventa "territorio metropolitano" di Roma e per questo viene nominata continuamente da tutti gli autori, compresi ad esempio Cicerone (filosofo e oratore), Giulio Cesare (che fu anche scrittore), Virgilio (v. punto 181), Strabone (v. punto 100), Plinio il Vecchio (v. punto 182), Plinio il Giovane, Lucano (v. punto 157), eccetera.
62 - L'Eneide, grande poema epico scritto da Virgilio (Mantova 70 a.C. – Napoli 19 a.C.), cita l'Italia innumerevoli volte, fin dai primissimi versi del Primo Canto. La prima traduzione in italiano (oggi ancora piuttosto diffusa) è di Annibale Caro, detto anche Annibal Caro (Civitanova Marche 1507 - Roma 1556). V. punto 181.
63 - Dante Alighieri (Firenze 1265 - Ravenna 1321) conduce uno storico studio delle parlate d'Italia nel "De Vulgari Eloquentia", scritto nel 1304 (punti 156 e 157). Nella Divina Commedia Dante cita l'Italia fin dal primo Canto (Inferno, I, 106) e nel Canto VI del Purgatorio analizza la triste situazione dell'Italia dell'epoca:
"Ahi serva Italia, di dolore ostello... Non donna di province, ma bordello" (Purg. VI, 76-78).
Dante aveva trattato questo argomento anche nel Convivio (v. punti 109 e 183).
64 - Giovanni Boccaccio (Firenze 1313 - Certaldo, Firenze, 1375) nel cap. XXI del suo "Trattatello in laude di Dante" (1362) sottolinea gli enormi vantaggi creati da Dante nel suo atto rivoluzionario di scrivere in "volgare" e non soltanto in latino, "per fare utilità più comune a' suoi cittadini e agli altri Italiani: conoscendo che, se metricamente in Latino, come gli altri poeti passati, avesse scritto, solamente a' letterati avrebbe fatto utile". Per la verità già altri autori italiani avevano scritto in “volgare” prima di Dante. Ma evidentemente Boccaccio si riferisce al fatto rivoluzionario di preferire il volgare perfino per scrivere un’opera ambiziosa e di grande portata come la Divina Commedia, facendola precedere peraltro da una trattazione teorica sulla validità e sull’adeguatezza della lingua (De vulgari eloquentia).
65 - Petrarca nomina l'Italia in almeno due poesie molto famose. In una delle due definisce l’Italia “Il bel paese ch’Appennin parte e ’l mar circonda e l’Alpe” (v. punto 184).
66 - Fazio degli Uberti (Pisa 1305 - Verona 1370 circa) scrive la poesia "Ai signori e popoli d'Italia" (“Rime” XVII, anno 1350 circa).
67 - Matteo Maria Boiardo (Scandiano, Reggio Emilia, 1441 - Reggio Emilia 1494), lascia incompleto il suo poema "Orlando Innamorato" a causa dell'invasione dei francesi. Gli ultimi versi del Poema sono questi: "Mentre che io canto, o Iddio redentore, vedo la Italia tutta a fiamma e a foco".
68 - Niccolò Machiavelli (Firenze 1469 - 1527) dedica all'Italia gran parte del suo celebre trattato politico, "Il Principe" (1505), soprattutto gli ultimi tre capitoli. In particolare l'ultimo capitolo, il 26, si intitola: "Esortazione a pigliare la Italia e liberarla dalle mani de' barbari". Ma già nel secondo capitolo si legge: "Specchiatevi nei duelli e nei congressi dei pochi quanto gl'Italiani sieno superiori con le forze, con la destrezza, con l'ingegno".
69 - Giangiorgio (o Giovan Giorgio) Trissino (Vicenza 1478 - Roma 1550) nel 1547 scrive il poema eroico "L'Italia liberata dai Goti". Trissino è molto importante anche per la "questione della lingua” (v. punti 47 e 164).
70 - Francesco Guicciardini, storico, filosofo e uomo politico (Firenze 1483 - 1540), tra il 1535 e il 1539 scrive la prima "Storia d'Italia" in lingua italiana.
71 - Galeazzo di Tarsia (Napoli 1520 - 1553) intorno al 1540 scrive il sonetto: "Già corsi l’Alpi", chiamato anche "All'Italia" (v. punto 185).
72 - Carlo Innocenzo Frugoni (Genova 1692 - Parma 1768) scrive il sonetto: "Annibale dalle Alpi ammirò l'Italia".
73 - Padre Ludovico Antonio Muratori (Vignola, Emilia, 1672 - Modena 1750) scrive parecchie opere storiche e letterarie sull'Italia, tra cui: "Repubblica letteraria d'Italia"; "Della perfetta poesia italiana" (1730); "Annali d'Italia" (1749). Inoltre resta celebre una sua lettera datata "Napoli, 1703", che viene inviata a centinaia di intellettuali italiani.
74 - Il filosofo Giambattista Vico (Napoli 1668-1774) scrive varie opere, sia in italiano che in latino, tra cui "De antiquissima italorum sapientia" ("Sull'antichissima sapienza degli italiani", 1710), dove peraltro espone alcuni caposaldi della sua filosofia.
75 - Charles-Louis de Secondat, Barone di Montesquieu, filosofo e scrittore (Bordeaux, 1689 - Parigi 1755) nel 1728 scrive "Viaggio in Italia". Nel 1788 anche il grande poeta tedesco Johann Wolfgang von Goethe (Francoforte 1749 - Weimar 1832) scrive il suo "Viaggio in Italia", 1788 (v. punto 187).
76 - Gian Rinaldo Carli (Capodistria 1720 – Milano 1720) nel 1765 scrive l'articolo "La patria degli italiani" sulla rivista degli illuministi milanesi, “Il caffè”. Carli lamenta il fatto che gli italiani considerano si considerano forestieri tra di loro e tendono a sottovalutare se stessi e l'Italia. Il suo scritto risulta soprendentemente attuale: "Chi è quell'Italiano, che abbia coraggio di apertamente lodare una manifattura, un ritrovato, una scoperta, un libro d'Italia, senza il timore di sentirsi tacciato di cieca parzialità, e di gusto depravato e guasto?”. L'articolo in questione è riportato quasi interamente nel punto 186.
77 - Vittorio Alfieri (Asti 1749 - Firenze 1803), celebre poeta, fu anche patriota e tra l’altro affermò: "Mi bisognava uscir lungamente d'Italia per conoscere e apprezzare gli italiani".
78 - Filippo Buonarroti (Pisa 1761 - Parigi 1837), discendente di Michelangelo, partecipò attivamente alla Rivoluzione Francese e intorno al 1790 scrisse "L'amico della libertà italiana". Inoltre nel 1796 auspicò "che le frivole distinzioni di esser nati a Napoli, a Milano, a Genova o a Torino sparissero per sempre tra i patrioti. Noi siamo tutti di un medesimo paese e di una medesima patria. Gli italiani sono tutti fratelli".
79 - Vincenzo Monti (Alfonsine, RA, Romagna, 1754 – Milano 1828) nel 1801 scrive la celebre poesia "Per la liberazione d'Italia" (1801): "Bella Italia, amate sponde...” (v. punto 191).
80 - Ugo Foscolo (Zante, isola allora veneziana, Grecia, 1778 - Londra 1827), nei "Sepolcri" (1807) scrive "Le urne dei forti", ove descrive le tombe di alcuni personaggi immortali nella chiesa di Santa Croce a Firenze: Niccolò Machiavelli, Michelangelo Buonarroti, Galileo Galilei, Vittorio Alfieri. Oggi in Santa Croce vi sono anche le tombe dello stesso Foscolo, di Gioacchino Rossini e di altri. Vi è anche un monumento a Dante, la cui vera tomba però è a Ravenna.
81 - Stendhal, pseudonimo di Henry Beyle, scrittore francese (Grenoble 1783 - Parigi 1842) nel 1800 giunge a Milano (a soli 17 anni) e si innamora dell'Italia. Scrisse, tra l'altro: "Roma, Napoli e Firenze" (1817); "Piccola guida per il viaggio in Italia" (1828); "Passeggiate Romane" (1829); "La Certosa di Parma" (1839). V. punto 190.
Altri letterati stranieri innamorati dell'Italia intorno al 1800 furono:
- La scrittrice francese Madame de Stael (Germaine Necker, Parigi 1766-1817) che nel 1807 scrisse "Corinne ou l'Italie", in cui descrisse l'Italia con ammirazione.
- Il poeta inglese Lord Byron (George Gordon Noel Byron, Londra 1788 - Patrasso, Grecia, 1824) che dal 1817 al 1824 abitò in diverse città d'Italia (Venezia, Ravenna, Pisa, Livorno, Genova).
- Un altro poeta inglese, Percy Bysshe Shelley (Field Place, Sussex, 1792 - La Spezia o Viareggio 1822).
In realtà molti altri sono stati i poeti e scrittori stranieri che tra il 1500 e il 1900 celebrarono l'Italia. Occorre però riconoscere che alcuni autori, come Sharp, Grosley e lo stesso Goethe, sottolinearono i difetti e lo scarso senso civico degli italiani (v punti 187; 188; 189).
82 - Il grande poeta Giacomo Leopardi (Recanati, Marche, 1798 – Napoli 1837) scrisse varie opere sull'Italia e sugli italiani:
- Orazione agli Italiani (1815).
- Prime confessioni (dall'Epistolario, 1817).
- Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (1818).
- Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani (1824).
- La poesia
"All'Italia" (1818): “Come
cadesti o quando da tanta altezza in così basso loco?”.
- La poesia "Sopra il Monumento di Dante" (1818): "Qualunque petto amor d'Italia accende..." (v. punti 189, 192 e 193).
83 - Nel 1821 Alessandro Manzoni (Milano 1785 - 1873) scrive l’ode intitolata "Marzo 1821":
"Non fia loco ove sorgan barriere / Tra l’Italia e l’Italia, mai più!" (v. punto 194).
84 - Massimo D'Azeglio (Torino, 1798-1866), scrittore e uomo politico, nel 1833 scrive "Ettore Fieramosca da Capua", ispirato alla Disfida di Barletta (v. punti 124; 125; 126).
85 - Il filosofo e uomo politico Vincenzo Gioberti (Torino 1801 - Parigi 1852) nel 1843 scrive
"Il primato morale e civile degli Italiani".
86 - Niccolò Tommaseo (Sebenico, Dalmazia, 1802 - Firenze 1874) scrive, tra l'altro:
Dizionario dei sinonimi (1827); Dell'Italia (1835); Dizionario della lingua italiana (1858).
87 - Nel 1847, alla vigilia della Prima Guerra d'Indipendenza, Goffredo Mameli (Genova 1827 - Roma 1849) scrive il celebre "Canto degli Italiani", o "Inno di Mameli", o "Fratelli d'Italia", musicato da un altro genovese, Michele Novaro, ed oggi Inno nazionale d'Italia (v. punto 195).
Luigi Mercantini (Ripatransone, Ascoli Piceno, 1821 - Palermo 1872) scrive la "Canzone italiana" (poi diventata Inno di Garibaldi) e "La spigolatrice di Sapri".
88 - Ippolito Nievo (Padova 1831 - Palermo 1861) nel 1858 scrive il famoso romanzo "Confessioni di un Italiano" (v. punto 197).
89 - Francesco De Sanctis, uomo politico e filosofo (Morra, Avellino 1817 - Napoli 1883) nel 1871 scrive la celebre "Storia della letteratura italiana", celebrando anche l'unità politica d'Italia.
De Sanctis afferma che la lingua italiana deriva dalla lingua parlata dalle classi popolari dell'antica Roma, ma su di essa è sviluppata una letteratura "illustre" e prestigiosa.
90 - Edmondo De Amicis (Oneglia, Imperia, 1846 – Bordighera, Imperia, 1908) nel 1886 scrive il libro "Cuore" per i bambini delle scuole elementari, esaltando l'Italia e il Risorgimento (v. punti 198 e 199).
Cap. 6 - Espansione degli argomenti
riassunti nel cap. 3 (storia del nome Italia).
91 - Il nome "Italia" inizia ad essere usato nel sesto secolo avanti Cristo e ben presto supera in importanza altri nomi equivalenti: Esperia, Ausonia, Enotria. Un notevole esempio dell'utilizzo di questo nome è costituito dalla "Scuola Italica", fondata da Pitagora a Crotone, nell'attuale Calabria. Inizialmente il nome Italia indica solo questa regione, poi inizia a estendersi alle altre regioni meridionali.
92 - Nel quinto secolo a.C. lo storico Antioco di Siracusa, che scrive due saggi in greco, uno sulla Sicilia e uno sull'Italia, fa derivare questo nome da un leggendario Re Italo. Gli storici attuali però non condividono questa interpretazione e ritengono che il nome Italia derivi dalla parola Viteliu, che nelle lingue pre-romane dell’Italia centro-meridionale significava Vitello. L’Italia quindi sarebbe la “Terra dei Vitelli”. E’ notevole anche la somiglianza con la parola del greco arcaico che significava vitello o toro: Italos.
93 - Nel terzo secolo avanti Cristo il nome Italia si è già esteso alle regioni del Centro e comprende così l'intera la penisola, intesa nel senso geografico del termine, dalla Calabria e dalle Puglie alla Toscana e alle Marche.
94 - Nel secondo secolo avanti Cristo alcuni autori Romani, come Polibio e Catone il Censore, comprendono nel nome d'Italia anche le regioni del nord, fino all'arco alpino.
95 - Intorno all'anno 100 a.C. le popolazioni Italiche, alleate dei Romani, chiedono la cittadinanza romana ma non la ottengono. Quindi intorno al 90 a.C. la Lega degli Italici si contrappone a Roma, colloca la loro capitale nella città di Italica (oggi Corfinio, negli Abruzzi) e conia una moneta d’argento su cui figura il nome ITALIA (scritto proprio così, con i caratteri romani che usiamo ancora oggi). Nota: nei secoli seguenti il nome Italia (o più raramente Ytalia) verrà riportato (oltre che in innumerevoli opere scritte) su vari monumenti (per esempio: Turbia, v. punto 100; Ponte Salario, v. 109). Solo nel 1277 comparirà per la prima volta in una pittura (cioè nell'affresco "Ytalia" ad opera di Cimabue, ad Assisi, Basilica di San Francesco).
96 - Nell'anno 88 a.C. la cittadinanza romana viene finalmente concessa alle popolazioni Italiche. Finiscono così le “guerre sociali” e la contrapposizione Roma-Italia, che da questo momento costituiscono un'entità unica. (Una curiosità: oggi in inglese l'aggettivo "Italic" individua le lettere in corsivo, mentre “Roman” indica i caratteri normali). Nell'81 a.C. Silla attribuisce al nome Italia un significato politico ufficiale, che comprende la penisola e la Liguria, ma non ancora le altre regioni del nord. I confini ufficiali sono il fiume Varo ad Ovest (presso Nizza) ed il fiume Rubicone ad Est (presso Rimini). Il territorio tra il Rubicone e le Alpi fino al 45 a.C. verrà chiamato dai Romani "Gallia Cisalpina", ma alcuni la consideravano parte d'Italia già nel secolo precedente (v. punto 94).
97 - Nel 49. a.C. Giulio Cesare, alla guida del suo esercito, oltrepassa il Rubicone marciando verso sud, senza l'autorizzazione del Senato Romano, provocando la guerra civile. Oggi molti libri di storia dimenticano di specificare il motivo per cui Cesare non era autorizzato a varcare il Rubicone: esso rappresentava il confine politico d'Italia (punto 96), considerato "territorio metropolitano di Roma". Entrare in Italia equivaleva ad entrare in Roma.
98 - Nel 45 a.C. lo stesso Giulio Cesare indica le Alpi come confine naturale d'Italia e concede la cittadinanza romana alla Gallia Cisalpina, che di fatto cessa di esistere e diventa parte d'Italia. Ad Est il confine viene identificato con il fiume Formione, oggi Risano, in territorio sloveno, poco a sud di Trieste. A Nord ovviamente i confini sono rappresentati dalle Alpi, anche se in alcuni punti non raggiungono lo spartiacque principale.
99 - Nel 27 a.C. l'imperatore Cesare Ottaviano Augusto sposta i confini orientali al fiume Arsa, in Istria (oggi in territorio croato) e suddivide l'Italia in 11 regioni, i cui nomi in latino sono i seguenti:
I - Latium et Campania;
II - Apulia et Calabria (ma con il nome Calabria si intendeva l'attuale Salento);
III - Lucania et Brutium (o Bruttium, in italiano Bruzzio, corrispondente all'attuale Calabria);
IV - Samnium;
V - Picenum;
VI - Umbria;
VII - Etruria;
VIII - Aemilia;
IX - Liguria;
X - Venetia et Histria;
XI - Transpadana.
Il resto dell'Impero Romano è suddiviso in province, che non hanno la cittadinanza romana.
La Sicilia, la Sardegna e la Corsica non fanno ancora parte dell'Italia ma restano "province".
100 - Intorno alla nascita di Cristo il grande storico e geografo greco Strabone afferma che "tutti gli Italiani sono ormai Romani". L'Italia viene chiamata "Rerum Domina", ovvero "Signora di tutte le cose" (v. punto 109). Di quest'epoca è il Trofeo della Turbia (sopra il Principato di Monaco) dove vi è l'iscrizione romana: "Huc usque Italia, abhinc Gallia" (“fin qui l'Italia, da qui la Gallia”). A partire da Augusto, l'Europa e il Mediterraneo vivono ben due secoli di pace e prosperità, fatto più unico che raro nella storia del mondo.
101 - Nel 77 dopo Cristo Plinio il Vecchio descrive in dettaglio l'Italia nel libro III della sua "Naturalis Historia" e afferma: "questa e' l'Italia sacra agli dei" ("Haec Italia Diis Sacra", Nat. Hist. III, 138). V. punto 182. Plinio perirà due anni più tardi a Pompei nella storica eruzione del Vesuvio. Nel 130, sotto l'imperatore Adriano, la parola Italia apparirà per la prima volta su una moneta romana (la moneta del 90 a.C. era invece degli Italici, v. punto 95).
102 - Nell'anno 292 l'imperatore Diocleziano forma la "Diocesi Italiciana", che comprende anche la Sicilia, la Sardegna, la Corsica e addirittura oltrepassa le Alpi in corrispondenza del Tirolo (detto "Rezia seconda"): l'Italia raggiunge così la sua massima espansione territoriale, che rimarrà (a parte il Tirolo) nella tradizionale concezione di "Italia" per tutti i secoli successivi, nonostante le divisioni politiche.
103 - Il territorio della Diocesi Italiciana corrisponde quasi esattamente all'Italia attuale, con l'esclusione delle seguenti zone: il Tirolo (austriaco a tutti gli effetti), il Canton Ticino (Svizzera Italiana), il Carso (Slovenia), l'Istria (Slovenia e Croazia), la zona intorno al Principato di Monaco e l'isola della Corsica (Francia), oltre ovviamente a San Marino e alla Città del Vaticano.
104 - Sebbene l'Italia attuale sia meno estesa rispetto alla Diocesi Italiciana, la forza della tradizione fa sì che nei territori esclusi l'italiano sia o lingua ufficiale o almeno una lingua largamente usata. I confini linguistici d'Italia infatti corrispondono quasi esattamente con quelli della Diocesi Italiciana, con alcune eccezioni, tra cui è doveroso citare, oltre ovviamente al Tirolo (unito temporaneamente all'Italia senza validi motivi), l'Alto Adige (o Sud Tirolo, ovvero la provincia di Bolzano) e la Val d'Aosta (v. punto 170).
105 - L'imperatore Costantino nel 313 d.C. concede la libertà di culto ai Cristiani. Nel 330 d.C. sposta la capitale dell'Impero da Roma a Bisanzio. Nel 395 d.C. l'imperatore Teodosio divide l'Impero in due parti: l'Impero Romano d'Occidente, che comprende l'Italia ed ha come capitale Milano (e non più Roma); e l'Impero Romano d'Oriente, che ha per capitale Bisanzio, poi chiamata Costantinopoli (oggi Istanbul). L'impero d'Oriente (Bizantino) durerà fino al 1453, quando Costantinopoli viene conquistata dai Turchi.
106 - Il quinto secolo d.C. vede la decadenza dell'Impero Romano d'Occidente a causa delle invasioni barbariche. L'Impero si riduce alla sola Italia. Nel 476 d.C. Odoacre pone ufficialmente fine all'Impero d'Occidente e si dichiara Re d'Italia: inizia il Medio Evo.
107 - Nel 493 l'ostrogoto Teodorico conquista l'Italia e ne diventa Re, destituendo Odoacre.
108 - Nel 527 Giustiniano sale sul trono di Bisanzio (cioè dell'Impero Romano d'Oriente) e si propone di ricomporre l'Impero Romano. Tra il 535 e il 553 riconquista l'Italia, in una guerra contro gli ostrogoti che si rivela rovinosa per il paese.
109 - Nel 554 Giustiniano pone la capitale d'Italia a Ravenna e dichiara: "Italia non provincia sed Domina provinciarum" (l'Italia non è una provincia ma è la Signora delle province). Intende così dimostrare che egli è il vero erede dell'Imperatore Cesare Ottaviano Augusto (punti 99 e 100). In realtà la capitale dell'Impero rimane a Costantinopoli, per cui la presunta "superiorità" dell'Italia rispetto alle cosiddette "province" dell'Impero risulta soltanto teorica. Tuttavia la guida di Giustiniano è utile per ristabilire un certo ordine in Italia dopo le invasioni barbariche (come sottolineato anche da Dante, Purgatorio, VI, 88-89, v. punto 183).
Un esempio
delle opere di Giustiniano a Roma è il restauro del Ponte Salario, su cui fu
posta l'iscrizione: "Imperante ...
Iustiniano ... libertate urbis Romae ac totius Italiae restituta”
("sotto il dominio di Giustiniano... restituita la libertà della città di Roma e di tutta l'Italia").
110 - Nel 568 ha formalmente termine l'unità territoriale italiana, in seguito all'invasione dei Longobardi. Nei decenni successivi l'Italia si ritrova spezzettata a macchia di leopardo tra Bizantini (con capitale Ravenna) e Longobardi (con capitale Pavia). La regione di Ravenna viene chiamata Romània (da cui discende l'attuale nome Romagna), poiché l'Impero Bizantino è pur sempre un Impero "Romano" (d'Oriente). Rimangono possedimenti bizantini anche le Marche, la zona di Roma, gran parte del Sud, la Sicilia, la Sardegna e la Corsica. Diventano Longobarde gran parte del Nord (tranne la Romagna e l'Istria), la Toscana, il Ducato di Spoleto e il Ducato di Benevento (che comprende l'Abruzzo, la parte interna della Campania e la Lucania).
111 - Come visto nel punto precedente, la Longobardia non si limitava all'attuale Lombardia ma comprendeva zone del Centro e del Sud (si pensi ad esempio a Sant'Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino, non lontano da Napoli). Inoltre l'epoca longobarda non fu certamente rosea per la Lombardia, contrariamente a quanto qualcuno oggi crede oggi. Naturalmente il periodo più felice per la Lombardia e per tutta l'Italia fu l'epoca romana a partire dal I secolo a.C. (v. punti 100 e 186). Milano fu perfino capitale dell'Impero Romano d'Occidente a partire dal 395 d.C. (v. punto 105).
112 - Le varie zone bizantine e longobarde, essendo separate tra di loro, acquistano una certa autonomia: nel settimo secolo inizia così il processo di disgregazione e separazione delle regioni d'Italia che durerà oltre 12 secoli. Ma poco prima dell'anno 800 Carlo Magno riunifica temporaneamente gran parte dell'Europa (soprattutto occidentale) e nell'anno 800 a Roma viene nominato dal Papa "Imperatore dei Romani". Nasce così il "Sacro Romano Impero", che comprende il "Regno d'Italia", con capitale Pavia. Alcuni Re d'Italia tra l’800 e il 1000 saranno Carlo III il Grosso, Berengario I del Friuli, Guido di Spoleto, Lamberto di Spoleto, Ludovico di Provenza, Rodolfo II di Borgogna, Ugo di Provenza, Ottone I di Sassonia (ricomincia così il dominio degli stranieri).
113 - Il riferimento voluto dall'Imperatore Carlo Magno all'antica Romanità è inevitabile, poiché solo i Romani avevano saputo garantire all'Europa e al Mediterraneo ordine, sicurezza e legalità, e due lingue "universali" comuni a tutti i popoli (il Greco e soprattutto il Latino). In seguito le invasioni barbariche posero fine alla tradizione Romana da un punto di vista formale, ma forse non sostanziale: infatti gli invasori (come i Goti e i Longobardi) non imposero in Italia una nuova lingua, un nuovo alfabeto o nuove leggi, ma adottarono quelle dei Romani. L’alfabeto romano fu adottato in tutta l’Europa occidentale, poiché le popolazioni che vi abitavano non avevano una loro scrittura. Infatti ancora oggi i paesi occidentali utilizzano gli stessi nostri caratteri (a parte minime differenze). Lo stesso si può dire delle leggi, che rimasero sostanzialmente quelle romane. Oggi stranamente si tende a denigrare la Romanità e a esaltare solo l'antica civiltà Greca, ma si dimentica che questa non avrebbe potuto espandersi e illuminare tutta l'Europa e il Mediterraneo senza l'ordine e la civiltà imposti dai Romani. Questo debito verso Roma è stato riconosciuto per molti secoli, ma stranamente negli ultimi decenni è stato dimenticato o perfino negato. A titolo di esempio, Venezia chiamerà ufficialmente il suo stato "Repubblica Romana di Venezia" ed ovviamente la sua lingua ufficiale sarà il latino (fino al 1500 circa, quando i diversi Stati italiani adotteranno come lingua ufficiale il "volgare illustre" indicato da Dante, ovvero la lingua italiana).
114 - Pochi decenni dopo l'800 inizia la lenta disgregazione del Sacro Romano Impero. Il Veneto è teatro di uno scontro con l'Impero Romano d'Oriente (Bizantino). Sicilia, Sardegna, Calabria e Salento tornano Bizantine. Gli arabi occupano la Sicilia per circa un secolo, dopo aver già occupato la Spagna, che resterà Araba per vari secoli. I successivi sconvolgimenti sono innumerevoli: tra i secoli nono e tredicesimo vi è la parziale disgregazione del Sacro Romano Impero e la nascita degli stati nazionali di Inghilterra, Spagna e Francia. E' opportuno sottolineare che l'Italia e la Grecia sono le uniche due nazioni europee a poter vantare un'origine nell'Evo Antico invece che nel Medio Evo. Questa è una caratteristica che contraddistingue pochissime altre nazioni al mondo: Cina, Giappone, India, Egitto.
115 - Tra il dodicesimo e il tredicesimo secolo il Sacro Romano Impero, detto ormai Germanico, si riduce ai territori tedeschi, all'Italia centro-settentrionale, e a poche altre zone adiacenti (Olanda, Belgio, Boemia). Parecchie città italiane rivendicano la loro autonomia: nascono così i Liberi Comuni e le Repubbliche Marinare.
116 - Tra il 1100 e il 1300 alcuni Comuni vivono tempi di prosperità, ma in generale il caos è notevole e si hanno scontri tra chi è favorevole all'Imperatore e chi è contro, tra Ghibellini e Guelfi. Nel 1155 l'Imperatore Federico Barbarossa riconquista gran parte dell'Italia del Nord e la Toscana, unificandole nel "Regno d'Italia". L'Italia centrale fa parte dello Stato della Chiesa, (Lazio, Umbria, Marche e Romagna) mentre l'Italia meridionale, ovvero il Regno di Puglia e di Sicilia, appartiene ai Normanni.
117 - Nel 1158 Federico Barbarossa indossa a Monza la celebre "Corona Ferrea" in qualità di "Re d'Italia". Ma il suo Regno è instabile e può contare sulla fedeltà di pochi Comuni, come Monza, Como, Crema, Lucca, Pisa, Firenze. La maggior parte dei Comuni del Nord sono contrari all'Imperatore e chiedono più autonomia, rivendicando il diritto a non essere considerate come "colonie" dell'Impero, secondo la celebre frase di Giustiniano: "Italia non provincia sed Domina provinciarum" (v. punto 109).
118 - Nel 1167 alcuni Comuni del Nord formano a Pontida la "Lega Lombarda", che è una coalizione anti-imperiale che ha anche l'appoggio di Venezia, del Papa e della Sicilia. Nel 1176 la Lega Lombarda sconfigge l'Imperatore a Legnano. Questo episodio verrà ricordato dai Risorgimentali come un caposaldo dell'orgoglio italiano contro lo straniero, anche per l'esplicito riferimento alla celebre frase di Giustiniano (punto 109). L'Inno di Mameli contiene questo passo: "Dall'Alpi a Sicilia ovunque è Legnano" (punto 195). Occorre ricordare però che alcuni Comuni (come Monza, Como o la stessa Legnano) erano schierati dalla parte dell'Imperatore. Le diverse città italiane di quest'epoca aspirano ad essere ciascuna una "piccola Roma", cercando di far rivivere a livello locale la civiltà, l'ordine e la prosperità dell'antico Impero, senza però avere la capacità di riformarne l'unità politica.
119 - Intorno al 1220 Federico II di Svevia, nipote di Federico Barbarossa, diventa Imperatore del Sacro Romano d'Impero, Re d'Italia e di Sicilia. Egli governa il Nord d'Italia (nonostante le autonomie concesse ai Comuni) ed il Sud, mentre lo Stato della Chiesa rimane indipendente. Nel 1237 Federico II batte la "nuova Lega Lombarda" e cattura il celebre "Carroccio". Ma negli anni seguenti il contrasto con il Papato e i nuovi successi dei Comuni riducono il suo potere.
120 - Federico II di Svevia fu uomo geniale ed amico delle scienze e delle arti. Rese la sua corte di Palermo uno dei maggiori centri culturali d'Europa, che vide tra l'altro la nascita della scuola poetica nota come "Scuola Siciliana". Inoltre nel 1224 Federico II fondò l'Università di Napoli, prima Università pubblica al mondo (la prima Università privata fu invece quella di Bologna, la cui fondazione si fa risalire al 1088, da quando si tennero corsi stabili di Diritto Romano). Tra il dodicesimo e il tredicesimo secolo altre università furono fondate in Italia, Francia e Inghilterra.
Tornando a Federico II: nel 1225 l'Imperatore sponsorizza il torneo matematico tra i matematici siciliani (tra cui spicca Giovanni da Palermo) e Leonardo Fibonacci da Pisa (che diffuse in Europa l'utilizzo dei cosiddetti "Numeri Arabi", in realtà importati dall’India, che usiamo ancora oggi)
121 - La "Scuola Siciliana" segna di fatto la nascita della Letteratura Italiana. Infatti i poeti della Scuola siciliana (tra cui lo stesso Imperatore!) non scrivevano in latino, che ormai pochi conoscevano, bensì in "lingua volgare", quella peraltro dal popolo (anche se molto ripulita). Il risultato era una lingua simile all'italiano attuale, che alcuni decenni più tardi fu ripresa dai poeti dello Stil Novo di Bologna e della Toscana, tra cui Dante (v. punti 36 e 153).
122 - A partire dal 1300, il "volgare illustre", cioè la lingua italiana, si diffonde sempre più, e intorno al 1500 inizia a sostituire il latino come lingua ufficiale dei vari Stati Italiani (v. per esempio il punto 127).
123 - Sarebbe impossibile seguire gli sviluppi storici riguardanti l'Italia tra il 1300 ed il 1800, che furono ancora più vari e caotici di quelli già visti tra i punti 106 e 119. Quindi citeremo solo alcuni eventi importanti per il nome di Italia.
124 - Nel 1503 vi è la Disfida di Barletta, altro evento storico che sarà ricordato e celebrato durante il Risorgimento. In Puglia, tredici cavalieri italiani al servizio della Spagna sfidano tredici cavalieri francesi che avevano insultato l'Italia. La disfida si conclude con un trionfo dei cavalieri italiani. L'episodio è riportato da Guicciardini nella sua "Storia d'Italia" (scritta tra il 1535 e il 1539) ed è celebrata nel romanzo "Ettore Fieramosca da Capua", scritto da Massimo D'Azeglio nel 1833, dopo aver dipinto nel 1829 anche un quadro riguardante l’episodio.
Esistono due film su questa vicenda: "Ettore Fieramosca", del 1938, con Gino Cervi;
"Il soldato di ventura", del 1975, con Bud Spencer e Philippe Leroy.
125 - I nomi e le città di provenienza dei tredici cavalieri italiani sono i seguenti:
Comandante: Ettore Fieramosca da Capua, Campania.
Vice-comandante: Fanfulla da Lodi, Lombardia.
Romanello da Forlì. Riccio da Parma.
Giovanni Capaccio, Giovanni Brancaleone ed Ettore Giovenale, di Roma.
Marco Carellario di Napoli. Mariano Abignente da Sarni, Campania.
Ludovico Aminale da Terni. Miale da Troia, Puglia.
Francesco Salamone e Guglielmo Albimonte, Siciliani.
126 - Secondo la tradizione, Claudio Graiano di Asti, per dichiarati interessi mercenari, si schierò dalla parte dei francesi, suscitando l'ira di Ettore Fieramosca. Il fatto che fosse di Asti, cioè piemontese, è probabilmente un'invenzione di Massimo D'Azeglio, anch'egli piemontese, per evidenziare che la vera patria è l'Italia e non la propria regione. Gli storici mettono in dubbio che Graiano fosse di Asti, anche perché dai documenti storici conservati in quella città non risulta che in tale epoca sia esistito un Cavaliere con tale nome, che si sia recato in Puglia a disputare la Disfida. Alcuni storici ritengono che si chiamasse Claude Graian e fosse realmente francese, di una località chiamata Aste. Probabilmente era Savoiardo, quindi indubbiamente di nazionalità francese, anche se allora la Savoia non apparteneva politicamente alla Francia ma era unita al Piemonte nel Regno Sabaudo. Si sa per certo si sa che erano Savoiardi altri tre cavalieri dei tredici francesi.
127 - A proposito della "nazionalità" della Savoia, è bene sfatare una "leggenda" diffusa dal regime fascista, secondo cui la Savoia era una regione italiana. In realtà le tradizioni della Savoia (e della Val d'Aosta) sono Franco-Provenzali, mentre quelle del Piemonte sono italiane. Il fatto che queste regioni fossero unite in un'unica entità politica (il Regno Sabaudo) non altera questi dati di fatto. Nel 1560 (pochi decenni dopo la Disfida di Barletta) il Duca Emanuele Filiberto di Savoia, prendendo atto della caduta in disuso del latino, che ormai ben pochi usavano o capivano, decretò di scrivere i documenti "in bona lingua volgare, cioè Italiana, ne’ nostri stati d’Italia, e Francese, in quelli di là de’ monti". Gli "stati di là de' monti" secondo Emanuele Filiberto erano (giustamente) la Savoia e (impropriamente) la Valle d’Aosta (che in realtà si trova sul versante italiano, cioè "di qua" rispetto alle Alpi, ma che effettivamente era di tradizioni Franco-Provenzali).
128 - Per quanto riguarda la Contea di Nizza, essa per vari secoli fece parte del Regno Sabaudo, escluso il periodo napoleonico. La lingua ufficiale era l'italiano, anche se Nizza era linguisticamente più provenzale che ligure. Ma molte erano le famiglie trapiantate dalla Liguria, come quella di Giuseppe Garibaldi, nato a Nizza appunto da genitori liguri (di Chiavari il padre, di Loano la madre). Com'è noto, Nizza divenne definitivamente francese nel 1860, dopo la seconda guerra d'indipendenza. Per quanto riguarda il principato di Monaco, le sue caratteristiche linguistiche originarie erano chiaramente liguri, e quindi italiane (nel secolo scorso però l'imposizione forzata del francese le ha snaturate e quasi eliminate).
129 - I confini occidentali d'Italia (cioè quelli con la Francia) sono naturalmente individuati dalle Alpi. Per quanto riguarda il litorale tra Italia e Francia, il confine linguistico è quello indicato da Dante già nel De Vulgari Eloquentia (v. punto 157) e si trova presso il Trofeo della Turbia, vicino a Monaco e Montecarlo, ultimi avamposti di tradizioni liguri (mentre Nizza è già provenzale, v. punti 100; 128). Gli altri confini linguistici d’Italia sono nettissimi, poiché le lingue confinanti non sono neo-latine e quindi differiscono totalmente dalle parlate italiane. A Nord vivono le popolazioni di lingua tedesca (della Svizzera e dell'Austria), a Nord-Est troviamo lingue Slave (sloveno e croato), e a Sud, superato il Canale di Sicilia, si parla la lingua araba (Tunisia e Libia).
130 – Tornando al Rinascimento, Francesco Guicciardini (Firenze 1483 - 1540) scrive la "Storia d'Italia" (1535-1539) non in latino, ma in volgare (cioè in italiano). In quest’epoca risultano ormai poche le opere scritte in latino. Nel Sud d’Italia la tradizione basata sul latino tende a resistere un po’ di più.
131 - In contrapposizione alle Riforme protestanti (Martin Lutero in Germania, Calvino in Svizzera, Enrico VIII in Inghilterra), la Chiesa Cattolica Romana opera una severa "Controriforma" istituendo il "Concilio di Trento" dal 1545 al 1563. Una conseguenza è l'obbligo di avere un "cognome", che fino allora solo i nobili o i ricchi avevano. Dal 1564 i parroci cattolici devono tenere un registro ordinato dei battesimi con nome e cognome, per evitare matrimoni tra consanguinei. Il soprannome o secondo nome diventa ereditario, cioè diventa il cognome.
132 – Il “gioco del Lotto” nasce nel sedicesimo secolo a Genova (e non a Napoli come molti credono) e ben presto si diffonde in tutte le regioni italiane, a partire dalla Toscana.
Le date ufficiali di inizio del gioco del Lotto sono le seguenti:
1556 - Firenze
1576 - Genova (dove era nato e dove di fatto veniva giocato da almeno 50 anni)
1600 circa - Milano
1666 - Roma
1674 - Torino
1682 - Napoli
1713 - Palermo (dove di fatto veniva giocato dal 1682)
1733 - Venezia
Queste furono le "ruote" originarie del Lotto, a cui si aggiunsero, dopo l'unità d'Italia, Bari (1866) e Cagliari (1939). Sempre nel 1939 fu aggiunta di nuovo la ruota di Genova, che era stata abolita intorno al 1800, forse in seguito all'annessione della Liguria al Piemonte (un'annotazione curiosa: non è mai esistita una ruota di Bologna). Da qualche anno il gioco del lotto si è diffuso anche in paesi esteri. La "smorfia" napoletana associa un simbolo ad ogni numero del lotto e della tombola. Ad esempio: 90 = paura; 77 = gambe delle donne; 47 = morto che parla. Il numero più importante, 1, simboleggia l'Italia.
133 – Finito il Rinascimento, nei primi decenni del 1600 inizia la decadenza dell'Italia, che per almeno 15 secoli era stato il faro della civiltà europea. Mentre altri paesi europei vivono un rapido progresso culturale, civile, scientifico ed economico (soprattutto Francia e Inghilterra, ma anche i numerosi Stati Germanici che ancora appartengono formalmente al Sacro Romano Impero), l'Italia rimane statica nelle sue eccessive tradizioni e nell'ammirazione improduttiva del suo passato glorioso. Ad esempio, è vero che Galileo dà inizio alla Scienza Moderna intorno al 1600 (grazie anche all'eredità di Leonardo da Vinci e alle intuizioni di Giordano Bruno), ma in seguito gli scienziati italiani saranno pochi in confronto a quelli francesi, inglesi, e tedeschi. E’ inevitabile attribuire una certa responsabilità alla Chiesa, che con la sua intransigenza condannò a morte Giordano Bruno e all’esilio Galileo Galilei e così contribuì sicuramente all’indebolimento della tradizione filosofica e scientifica in Italia (mentre all’estero fioriva sempre più). Questo a sua volta condizionò negativamente il progresso generale della nazione (già afflitta da dominazioni straniere e da altri problemi). L’Italia così rimase indietro rispetto ad altri paesi europei, che oggi dobbiamo considerare oggettivamente più civili del nostro.
134 – Sospendiamo un attimo la nostra analisi storica per commentare la situazione alla fine del Rinascimento. L'Italia soffre ormai da secoli il dominio di varie popolazioni straniere: inizialmente Germaniche, Bizantine, Normanne, e in una piccola misura anche Musulmane, cioè i cosiddetti Mori, Saraceni, Turchi (si pensi al famoso detto: "Mamma li turchi", che oggi ci fa ridere, ma allora esprimeva un terrore reale delle popolazioni italiche, specialmente meridionali). Intorno al 1500 e 1600 l'Italia è contesa soprattutto tra Francia e Spagna, e, a parte sporadici episodi come quello della Disfida di Barletta (punto 124), la rassegnazione sembra dominare gli italiani. In questo periodo si diffonde il detto opportunista: "Franza o Spagna, pur che se magna".
135 - Occorre comunque ricordare alcuni atti di ribellione da parte degli italiani, come quelli già della "Lega Lombarda" intorno al 1200 contro l'Imperatore Federico Barbarossa. Altri piuttosto importanti furono i seguenti:
- I Vespri Siciliani, contro la dominazione francese: 1281-1282 (v.punto 198).
- La difesa della Repubblica da parte di Francesco Ferrucci (detto "Il Ferruccio") contro contro l'imperatore Carlo V intorno al 1530 (v. punto 58).
- La rivolta di Masaniello a Napoli: nel 1647 il pescivendolo Tommaso Aniello capeggiò una ribellione contro i governanti spagnoli e si nominò "Preposto e Prefetto Generale de lo Fedelissimo Popolo Napolitano". Ben presto gli spagnoli ripresero il potere, grazie al sostegno arrivato dall'Austria, ma la figura di Masaniello, benché controversa, fece scalpore in tutta Europa, e specialmente in Inghilterra ed in Polonia, come esempio di libertà ed eguaglianza, e fu uno dei motivi ispiratori perfino della Rivoluzione Francese.
- Nel 1746 Balilla Perasso, un ragazzo di Genova, scaglia sassi contro gli austriaci ed innesca la rivolta popolare, che portò alla cacciata degli austriaci (con l'appoggio francese). La crisi poi costrinse Genova a vendere la Corsica alla Francia nel 1768 (un anno prima della nascita di Napoleone). L'episodio di Balilla fu ampiamente celebrata dal fascismo. Ma era già stato ricordato nell'inno di Mameli (punto 195), insieme alla Lega Lombarda, ai Vespri Siciliani e al "Ferruccio".
136 - Alla fine del '700, quando l'Italia agli occhi degli europei dà un'immagine paradossale di antica civiltà e contemporaneamente di decadenza e inciviltà, si vedono i primi segni del Risorgimento. Il 7 Gennaio 1797 a Reggio Emilia la Repubblica Cispadana, uno degli Stati satelliti creati in Italia da Napoleone, adotta la bandiera tricolore, chiaramente ispirata a quella francese nata nel 1794, ma col verde al posto del blù. Vengono considerati i primi segni del Risorgimento Italiano anche la Repubblica Romana (1798) e la Repubblica Partenopea (1799), che fu ferocemente repressa dai Borboni e dagli inglesi di Orazio Nelson.
137 - Nel 1801 Napoleone si proclama Presidente e nel 1805 Re d'Italia. A Milano Napoleone indossa la Corona Ferrea, già simbolo dei Re d'Italia del passato (v. punti 107; 112; 117), e pronuncia le celebri parole: "Dio me l'ha data, guai a chi la tocca!". Ma il Regno d'Italia di Napoleone, che comprende solo il Nord, dura pochi anni. Nel frattempo Napoleone pone sul trono di Napoli prima suo fratello Giuseppe, poi suo cognato Gioacchino Murat.
138 - Studiando le lettere di Napoleone si potrebbero capire tante cose importanti sull'Italia, oggi dimenticate. Per esempio consideriamo l'inizio della seguente lettera, spedita al fratello Giuseppe, Re di Napoli, (riportata da un sito web francese: www.histoire-empire.org).
"Saint-Cloud,
21 avril 1806. Au roi de Naples.
Mon
Frère, des troupes légères comme les Corses, qui, comme les troupes italiennes,
parlent la langue du pays, seront excellentes pour faire la guerre aux brigands
dans la Calabre".
Traduzione in italiano: "Fratello, mio, truppe leggere come quelle Corse [cioè dei soldati della Corsica], che, come le truppe Italiane, parlano la lingua del paese, sarebbero eccellenti per fare la guerra ai briganti in Calabria". Queste parole di Napoleone dimostrare alcune cose importanti che oggi stranamente vengono ignorate o perfino negate:
1) Nel 1806 i calabresi capivano la lingua italiana (può sembrare stupido specificare una cosa così ovvia, ma oggi molti sostengono che la lingua italiana si è diffusa in Italia solo a partire dal 1954, con la nascita della televisione!).
2) Anche i corsi (come lo stesso Napoleone) capivano e parlavano l'italiano, per motivi naturali, sebbene la Corsica fosse diventata francese già nel 1768 (v. punti 172 e 173).
3) Il fenomeno del brigantaggio esisteva in Calabria già nel 1806 ed è quindi imputabile al malgoverno dei Borboni (che furono destituiti da Napoleone solo per pochi anni). Oggi invece molti commentatori sostengono che il fenomeno del brigantaggio in Calabria fu dovuto all'Unità d'Italia (1861). Di fatto esso esisteva già da decenni a causa di problemi locali. Stendhal nel 1827 scrisse un libro a riguardo, intitolato "I briganti in Italia".
Oggi l'argomento del brigantaggio come reazione all'Unità d'Italia viene spesso utilizzato da coloro che vogliono dimostrare che l'Italia è una nazione “inventata” a tavolino. Altri “punti forti” portati a favore di tale tesi sono due frasi celebri, volutamente fraintese e snaturate: quella di di Metternich (v. punto 143); e quella di D’Azeglio, “bisogna fare gli Italiani”, di cui parleremo nel capitolo 9. Il libro “L’Italia non esiste”, di Sergio Salvi (Ed. Camunia, 1996) si basa proprio su argomenti di questo tipo. Questo argomento sarà ripreso nel capitolo 9. Il lettore saprà trarre le sue conclusioni confrontando le centinaia di verità storiche citate nel presente libretto con le fumose argomentazioni esposte nel libro suddetto.
139 - Napoleone, prigioniero nell’isola d’Elba, nel 1814 proclamò:
“Sono stato grande sul trono di Francia principalmente per la forza delle armi [...]. Ho dato alla Francia codici e leggi che vivranno quanto il mondo [...]. A Roma io volgerò ad altro e miglior fine questa medesima gloria, splendida come la prima, ma non guidata dagli stessi principi; meno rumorosa, ma certo più durevole e proficua, perché nessuna si potrà ad essa paragonare. Farò degli sparsi popoli d'Italia una sola nazione [...] Darò all'Italia leggi adatte agli Italiani. Finora io non sono riuscito a dar loro che provvedimenti temporanei: tutto sarà da ora innanzi compiuto: e ciò che io farò sarà eterno quanto l'Impero. Napoli, Venezia, La Spezia saranno immensi cantieri di costruzioni navali, e in pochi anni avrà l'Italia una marina imponente. Farò di Roma un porto di mare. Fra venti anni avrà l'Italia una popolazione di trenta milioni di abitanti e sarà allora la più potente nazione d' Europa. Non più guerre di conquista. Nondimeno avrò un esercito prode e numeroso sui cui vessilli farò scrivere il motto “Guai a chi lo tocca”, e nessuno l'oserà. Dopo essere stato Scipione e Cesare in Francia, sarò Camillo a Roma: cesserà lo straniero di calpestare con il suo piede il Campidoglio, né più vi ritornerà. Sotto il mio regno, la maestà antica del popolo-re si unirà alla civiltà del mio primo impero, e Roma uguaglierà Parigi, serbando tuttavia intatta la grandezza delle sue memorie passate. Sono stato di Francia il colosso della guerra: sarò in Italia il colosso della pace…". (In realtà Napoleone non ebbe più il potere di fare nulla).
140 - Murat, cognato di Napoleone, fu Re di Napoli dal 1808 al 1815. Rimane celebre il suo Proclama agli Italiani (Rimini, 30 Marzo 1815): "… Italiani! E' giunta l'ora in cui si debbono compiere gli alti destini d'Italia. La Provvidenza vi chiama infine ad essere una nazione indipendente. Dalle Alpi allo stretto di Sicilia si ode un grido solo: Indipendenza dell'Italia! E a qual titolo popoli stranieri pretendono togliervi questa indipendenza, primo diritto e primo bene d'ogni popolo?”.
141 - Alla guida del suo esercito, Murat strappò alcune terre agli Austriaci in Emilia-Romagna. Alle vittorie seguì il Proclama di Pellegrino Rossi, inneggiante al Re di Napoli e all'indipendenza italiana: "L'Eroe [Murat], a cui tutti eran volti gli sguardi degli Italiani, ne esaudì i caldi voti. Circondato da prodi, volò fra noi, levò altissimo il grido della nazionale indipendenza. Egli di schiavi vuol farne Italiani. Potremmo noi non accorrere alla voce del Grande che ci vuol salvi?".
142 - Tuttavia Murat dovette ben presto soccombere alla Restaurazione imposta dall'Austria e da altre Nazioni: col Congresso di Vienna (1815) il regno di Napoli ritornò ai Borboni. Gran parte dell'Italia finì sotto il controllo diretto o indiretto dell'Austria. Il Congresso del 1815 si risolse in maniera disastrosa per l'Italia, frantumata più che mai. Solo nel corso dei decenni successivi la coscienza risorgimentale cominciò lentamente a ricostruirsi.
143 - Metternich, ministro Austriaco, affermò che l'Italia è solo “un'espressione geografica”. Questa sua affermazione viene ricordata ancora oggi dagli anti-italiani, ma è evidente che la frase di Metternich è tutt'altro che imparziale. Inoltre l'affermazione originaria è meno drastica di come viene solitamente riportata. Ecco la citazione completa:
"La parola Italia è una espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle".
Klemens Wenzel Lothar von Metternich-Winneburg
(1773-1859)
144 - Noi salteremo gran parte della storia del Risorgimento per non cadere nel tranello contrario (della retorica e della celebrazione risorgimentale) e per cercare di mantenere una certa imparzialità. Per necessità però dovremo citare i fatti fondamentali. Aggiungeremo anche alcune cose significative, oggi poco note.
145 - La prima guerra di Indipendenza, conseguente alla rivolta del popolo milanese contro gli Austriaci ("Cinque giornate di Milano"), fu combattuta nel 1848 dal Piemonte, con l'appoggio di altri Stati Italiani, sul territorio del Lombardo-Veneto, possedimento austriaco. La guerra fu vinta dall'Austria, che riprese il possesso di Milano e dell'intero Lombardo-Veneto. Resta tuttavia un caposaldo del Risorgimento, anche perché coinvolse volontari di varie regioni italiane. E' doveroso ricordare la battaglia di Curtatone e Montanara, che vide il sacrificio di centinaia di universitari provenienti da Napoli e da Pisa (ed alcuni anche da Firenze e da Siena).
Oggi si dice, più o meno scherzosamente, che per la Lombardia sarebbe stato meglio rimanere sotto gli Austriaci piuttosto che finire nell'Italia unita ed impelagarsi con i "terroni". E' facile dirlo adesso, avendo dimenticato che gli Austriaci pretendevano di essere considerati "padroni" dagli italiani. Ecco un estratto da un libretto che veniva distribuito nelle scuole elementari di Milano fin dal 1815 (ovviamente in italiano):
"I sudditi si debbono comportare verso il loro Sovrano e in tutto ciò che egli comanda nella sua qualità di Sovrano, come si comportano i fedeli servitori in tutto ciò che comanda il loro padrone. [...] I sudditi debbono riguardare il Sovrano come loro padrone, perché in realtà egli ha diritto di essere da loro obbedito, e perché ha l'alto dominio sulle sostanze e sulle persone dei sudditi [...]" (dalla prima edizione de "I martiri della Libertà italiana dal 1794 al 1848", di Atto Vannucci, 1848).
Non mi risulta che gli Antichi Romani abbiano mai avuto un atteggiamento del genere con i popoli che avevano sottomesso. Per esempio, "Guai a vinti" lo disse il gallo Brenno ai Romani, ma non lo disse mai nessun Romano ad alcun popolo vinto. Eppure oggi i Romani vengono additati come esempio terribile di sopruso e crudeltà e si dimentica invece l'immenso patrimonio di civiltà che hanno lasciato al mondo. Oggi si disprezza la "Pax romana" perché era una pace forzata, tenuta con le armi. Ma a quel tempo l'unica alternativa possibile era la guerra a tutti i livelli (anche civile) e la distruzione civica e materiale: si pensi ad esempio alla Palestina ai tempi di Gesù, alla pur civilissima Greca pre-romana, ed alle invasioni barbariche in Italia alla fine dell’Impero.
146 - Nella seconda guerra di Indipendenza, combattuta nel 1859 dal Piemonte contro l'Austria col sostegno della Francia di Napoleone III, conquista la Lombardia e annette altre regioni del Centro-Nord. Nel 1860 la spedizione dei Mille, guidata da Garibaldi, partita da Genova e sbarcata in Sicilia, conquista tutto il Meridione d'Italia. Qualcuno oggi pensa che i Mille fossero tutti Settentrionali. In effetti vi era un alto numero di lombardi e veneti, ma erano rappresentante tutte le regioni d'Italia. I meridionali erano almeno duecento: molti erano siciliani, ma non mancavano i volontari di altre regioni del Sud: per esempio i campani erano più numerosi dei piemontesi. Questo è facilmente verificabile consultando la lista ufficiale resa nota nel 1864. In ogni caso i Mille di Garibaldi che sbarcarono in Sicilia, divennero 20mila quando raggiunsero il Volturno, a nord di Napoli, ed ovviamente coloro che si erano aggiunti erano quasi tutti meridionali. Discutibile è invece la pretesa della Monarchia Piemontese (Savoia) di impossessarsi dell’Italia intera, il che lasciò scontenti molti patrioti, tra cui Mazzini e lo stesso Garibaldi.
147 - Nel 1861 a Torino viene dichiarato il Regno d'Italia, di cui non fanno ancora parte "Roma e Venezia" (cioè il Lazio e le Tre Venezie). Nel 1866 la Terza Guerra di Indipendenza permette la conquista del Veneto (ma non di Trento e Trieste), sempre grazie all'alleanza con la Francia di Napoleone III, che però si opponeva alla conquista di Roma (poiché sede del Papato, cioè del centro ufficiale del cattolicesimo e più in generale del cristianesimo). Nel 1870, approfittando della caduta di Napoleone III e di una nuova guerra Franco-Austriaca, l'Italia conquista Roma.
148 - A quest'epoca risale anche l'unità della Germania (1871), a cui però non vollero aderire tre stati tedeschi: Austria, Lussemburgo e Liechtenstein. Il territorio germanico prima del 1815 era spezzettato in circa 350 Stati diversi, nati in seguito alla disgregazione del Sacro Romano Impero, avvenuto in pratica alla fine del sedicesimo secolo (ma formalmente solo nel 1806 per opera di Napoleone). Mediamente ciascuno di questi Stati era grande quanto la metà di un'attuale provincia italiana. Il Congresso di Vienna nel 1815 ridusse a 38 il numero degli Stati tedeschi, compresa l'Austria Imperiale. Nel 1871 però la fiera Austria volle rimanere indipendente (perciò quando si giunse all’unificazione si parlò di "Piccola Germania" invece che di "Grande Germania").
149 - L'Italia unita non includeva ancora i territori di Trento e Trieste, rimasti sotto l'Austria, pur essendo di tradizioni italiane. Alla fine dell'800 in queste aree si diffuse il fenomeno dell'Irredentismo (il movimento che desidera il ricongiungimento alla madrepatria). Tutto questo infine causò nel 1915 l'entrata dell'Italia nella Prima Guerra Mondiale. Nonostante grandi sconfitte, come la famosa "disfatta di Caporetto" (Ottobre 1917), alla fine l'Italia riuscì a conquistare Trento e Trieste. La battaglia decisiva fu quella di Vittorio Veneto. La data della vittoria fu il 4 Novembre 1918. Il sentimento del riscatto italiano resterà immortale nella celebre "Canzone del Piave", chiamata anche "Leggenda del Piave", "24 Maggio" o "Il Piave mormorava", scritta e musicata da E.A. Mario, celebre autore di molte altre canzoni (sia in italiano che in dialetto napoletano).
I confini settentrionali d'Italia furono spostati ben oltre il Trentino, cioè fino al Brennero (sull'effettivo spartiacque alpino), annettendo anche il Sud Tirolo, terra di tradizioni austriache e di lingua tedesca (con minoranze italiane e di lingua "ladina"), che oggi chiamiamo Alto Adige e costituisce la provincia di Bolzano. Gli italiani commisero, come gli Austriaci, lo stesso errore di considerare Trento e Bolzano come un blocco unico. In realtà Trento è di tradizioni italiane (e specificatamente venete a Trento e nell'Est della provincia, e lombarde nell'Ovest). Bolzano invece è di tradizioni tedesche (dialetti bavaresi, come nel resto del Tirolo e dell'Austria).
Ad Est, l'Italia otterrà il Carso, l'intera Istria, ed alcuni piccoli territori in Dalmazia. In queste aree la popolazione era mista, in parte italiana (Veneta) e in parte Slava (Slovena e Croata). Nelle zone costiere, specialmente quelle poco a sud di Trieste (come a Capodistria), la maggioranza della popolazione era italiana.
Inizialmente l’Italia non rimase soddisfatta dei territori ad essa assegnati dai trattati di pace: mancavano infatti parte dell'Istria e la città di Fiume. Si iniziò così a parlare di "vittoria mutilata", concetto che fu enfatizzato negli anni successivi dalla retorica fascista di Benito Mussolini. Il poeta Gabriele D'Annunzio, alla guida di alcuni volontari, riuscì perfino a conquistare la città di Fiume, che poi venne effettivamente annessa all'Italia. Altri atti eroici di D'Annunzio furono "la beffa di Buccari" e "il volo su Vienna" (quest'ultimo viene descritto nel punto 200).
150 – Nel 1940 Mussolini trascina l'Italia nella disgraziata avventura della Seconda Guerra Mondiale (anche se inizialmente riesce a mantenersi neutrale per quasi un anno). Nel 1945, finita la guerra, l'Italia subisce dei tagli territoriali, soprattutto ad Est: l’Istria, la Dalmazia e gran parte del Carso vengono assegnate alla Jugoslavia, che l’aveva già occupata. Molti sono gli italiani perseguitati o uccisi solo per la loro nazionalità. La città di Trieste rimase in forse fino al 1954, quando finalmente ritorna italiana.
Ad Ovest, alcuni piccoli territori vengono ceduti alla Francia, tra cui i fieri paesi di Briga e Tenda, che manifestarono a lungo per rimanere italiani. Anche Ventimiglia rischiò di diventare francese, e vi furono gravi disordini poiché la popolazione voleva rimanere italiana.
Cap. 7 - Espansione degli argomenti
riassunti nel cap. 4 (la lingua d’Italia)
e piccola antologia linguistica.
PRIMA DI DANTE.
151 - Nella "Carta Capuana" o "Placito di Capua" (Marzo 960) viene riportata la dichiarazione di un testimone durante un processo:
"Sao ke kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti".
Questo linguaggio oggi può sembrarci lontano dall'italiano, ma in realtà è molto più vicino alla nostra lingua che non al latino. Il significato è: "So che quelle terre, per quei confini che questa [carta] contiene, trent'anni li possedette la parte di San Benedetto". Negli anni seguenti furono riportate formule simili anche a Teano e Sessa Aurunca (sempre nel Nord della Campania).
152 - San Francesco (Assisi, Umbria, 1182 - 1226):
“Il cantico delle Creature” (anno 1224).
“Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so' le laude, la gloria e l'honore et
onne benedictione [...].
Laudato sie, mi' Signore, cum tucte le tue
creature,
spetialmente messor lo frate sole,
lo quale è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande
splendore;
de te, Altissimo, porta significatione.
Laudato sì, mi' Signore, per sora luna e le
stelle:
in
celu l'ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si', mi' Signore, per frate vento,
et
per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le tue creature dài
sustentamento.
Laudato si', mi Signore per sor'acqua,
la quale è multo utile et humile et pretiosa
et casta.
Laudato si', mi' Signore, per frate focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et
forte.
Laudato si', mi' Signore, per sora nostra
matre terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba [...]”.
153 - Giacomo da Lentini (o Iacopo o Jacopo) (Lentini, Sicilia, 1200 - 1270).
Inventore del "sonetto", fu il principale esponente della Scuola Siciliana.
Il linguaggio è già molto ripulito e risulta piuttosto simile all'attuale lingua italiana.
“Io m'aggio posto in core” (anno 1233).
“Io m'aggio posto in core a Dio servire
com'io potesse gire in paradiso,
al santo loco, ch'aggio audito dire,
u' si mantien sollazzo, gioco e riso.
Sanza mia donna non vi vorìa gire,
quella ch'ha blonda testa e claro viso,
ché sanza lei non poterìa gaudere,
estando da la mia donna diviso.
Ma no lo dico a tale intendimento,
perch'io peccato ci volesse fare [...]”.
154 – Esaminiamo anche il volgare milanese di Bonvesin della Riva (Milano 1240-1313):
“Le cortesie da desco” (Le belle maniere da usare a tavola, anno 1270 circa).
“Fra Bonvesin dra Riva, ke sta im borgo
Legnian,
de le cortesie da desco quilò ve dise
perman;
de le cortesie cinquanta ke se dén servar al
desco
fra Bonvesin dra Riva ve'n parla mo' de
fresco.
La premerana è questa, ke quando tu ve' a
mensa
del pover besonioso imprimamente impensa:
ké, quand tu pasci un povero, tu pasci lo to
pastor
ké t'a pasce pos la morte in l'eternal
dolzor.
La cortesia segonda: se tu sporzi aqua a le
man,
adornamente la sporze, guarda no sii vilan
[...]”.
155 - Facciamo il confronto con il romano volgare del 1250 circa. "Le miracole de Roma" è la prima "guida turistica" di Roma scritta in volgare invece che in latino. Il cap.8 descrive il Campidoglio:
"Capitolio, lo quale era capo de lo munno, dove stavano li consoli et li senatori ad regere tutto lo munno. Et lo monte intorno era murato de mura forte et alte. Et sopre la cima de lo monte tutte le mura erano de belle opere adornate, de auro et de vitro. Et infra la rocca de lo palazo de molte belle opere adhornate, de rame, de argento, de auro et de prete pretiose".
Rispetto al “romanesco” attuale, questo linguaggio è un po' più orientato verso i dialetti meridionali. Per esempio: "munno" invece di "monno" (cioè "mondo"); "petre" invece di "pietre"; l'articolo "lo" invece di "er" (cioè "il").
DA DANTE IN POI.
156 – Nel 1304 Dante Alighieri scrive il “De Vulgari Eloquentia” (DVE). Nel libro I, cap.VIII, Dante esamina le varie lingue d’Europa e le divide in tre gruppi: Greco/Slavo, Germanico e Latino. Egli identifica il vasto gruppo Germanico con l’affermazione “iò”, che significa “sì” (la sillaba “iò” è affine al tedesco attuale “ja” e all’inglese “yes”).
Dante quindi si concentra sulle lingue neo-latine. A quel tempo alcuni pensavano che fosse possibile creare un’unica lingua volgare, comune alla Francia, all’Italia e alla Spagna: per esempio “Il Milione” di Marco Polo fu scritto da Rustichello da Pisa nel 1299 in una strana lingua mista “franco-italiana” (purtroppo il testo originale è andato perduto). Seguendo questa prassi, Dante inizia la sua analisi riferendosi al “volgare latino”, come se fosse un’unica lingua, ma subito dopo deve precisare che tale volgare è “un idioma oggi tripartito, poiché alcuni per affermare dicono oc, altri oil, altri sì, e cioè gli Ispani, i Franchi e i Latini”.
In pratica, Dante ha già distinto tre lingue diverse: quella degli Ispani (che in realtà è il Provenzale); quella dei Franchi (cioè il Francese); e quella del Latini (che in realtà è l’Italiano). Ciascuna lingua ha un modo diverso per dire l’affermazione “sì”. L’affermazione francese riportata da Dante è “oil”, ma nei secoli successivi è cambiata ed oggi si dice "oui" (pronuncia: "uì"). Invece il nostro “sì” è rimasto tale, sia nell'Italiano standard che in tutti i dialetti (anche se in alcuni si pronuncia "scì").
Gli Ispani di Dante ("Yspani") in realtà sono i Francesi del Sud (Occitani/Provenzali); i Franchi ("Franci") sono i Francesi del Nord; e i Latini corrispondono agli Italiani, come si deduce dai passi successivi. Infatti Dante usa talvolta la parola “Latium” e altre volte la parola “Ytalia” per indicare lo stesso territorio, cioè l’Italia. Ed usa la parola “Latini” come sinonimo di “Ytali”, cioè di Italiani. Perché Dante chiama “Yspani” gli Occitani/Provenzali? Una probabile spiegazione è la seguente. Anzitutto Dante sembra disconoscere l’esistenza del Castigliano (lo spagnolo attuale), in cui si usa l’affermazione “sì” come in italiano: Dante infatti identifica il territorio del “sì” con la sola Italia. Inoltre occorre tener presente che la lingua della Spagna orientale, cioè il Catalano (parlata a Barcellona, in tutta la Catalogna e ad Andorra) è simile al Provenzale, lingua del Sud della Francia. Questi due fatti messi insieme potrebbero aver indotto Dante a identificare gli “Yspani” erroneamente (o impropriamente) con gli Occitani/Provenzali.
Del Provenzale resta una rara testimonianza nella Divina Commedia: nel Purgatorio infatti Dante infatti incontra Arnaldo Daniello (Arnaud Daniel), che parla appunto in Provenzale (XIV, 140-147). E' l'unico esempio, in tutta la Divina Commedia, di lingua diversa da quella dello stesso Dante. Infatti tutti gli italiani che Dante incontra nel suo viaggio parlano esattamente nella sua stessa lingua (invece che nei rispettivi volgari regionali).
157 - Nei capitoli successivi del De Vulgari Eloquentia (DVE) Dante si concentra sulla lingua dei “Latini”, che in realtà sono gli Italiani:
“Coloro che parlano con il sì vivono in quella parte dell'Europa meridionale che ad Occidente è segnata dai confini dei Genovesi, ad Oriente dal promontorio d'Italia proteso nell'Adriatico, e che verso Sud si estende fino alla Sicilia”. (I, VIII, 6, Traduzione dal latino e sintesi)
Con questa complicata descrizione Dante vuole indicare i confini entro i quali vengono parlati i dialetti caratterizzati dall'affermazione “sì”. Questo territorio coincide con l'Italia geografica, ma Dante all'inizio lo fa soltanto intuire, citando il nome d'Italia indirettamente, quasi per caso, e riportando i suoi confini naturali e tradizionali. I confini dei Genovesi sono quelli con la Francia, presso Nizza (Trofeo della Turbia ed attuale Principato di Monaco). Il promontorio orientale è l’Istria. Il territorio della lingua del “sì” continua verso Sud fino alla Sicilia, nominata esplicitamente. I confini settentrionali vengono identificati con le Alpi in un passo precedente (I, VIII, 5).
Dante poi avverte che la lingua del “sì” è frammentata in una molteplicità di volgari (i dialetti italiani), ma mostra che essi possono essere unificati poiché sono aspetti diversi di un’unica lingua ideale, il “volgare illustre”, comune a tutte le regioni (che naturalmente è la nostra lingua italiana). Dante quindi descrive le differenze e gli aspetti comuni dei vari volgari d’Italia. Egli li suddivide in 14 gruppi, di cui 7 ad Est degli Appennini e 7 ad Ovest.
“Diciamo innanzitutto che il Lazio [cioè l’Italia] è diviso in due parti, destra e sinistra. Se si chiede qual è la linea divisoria, ripondiamo subito che è la catena degli Appennini [...] come Lucano [autore Romano del I secolo d.C.] descrive nel secondo libro [della “Pharsalia”]: la parte destra sgronda nel Mar Tirreno, la sinistra cade nell’Adriatico”. I, X, 4.
Nella visione di Dante l’Italia appare capovolta, cioè il Sud è in alto e il Nord è in basso:
“Le regioni di destra sono: l’Apulia [Italia meridionale], ma non tutta; Roma; il Ducato [Spoleto ed Umbria meridionale], la Toscana, la Marca Genovese [Liguria]; quelle di sinistra sono l’altra parte dell’Apulia, la Marca Anconetana, la Romagna, la Lombardia, la Marca Trevisana con i Veneti. Infine, il Foro di Giulio [Friuli] e l’Istria non possono essere altro che alla sinistra d’Ytalia [Italia], mentre Sicilia e Sardegna possono essere associate solo alla destra d’Ytalia”. I, X, 5.
La classificazione di Dante è incompleta, poiché alcune regioni non vengono distinte in dettaglio ma risultano accorpate ad altre:
1) la Campania, la Lucania tirrenica e la Calabria secondo Dante formano un’unica regione, che egli chiama Apulia di destra;
2) le Puglie, la Lucania ionica, il Molise e gli Abruzzi secondo Dante formano un’altra regione chiamata Apulia di sinistra;
3) nella Lombardia sono inclusi anche il Piemonte e l’Emilia;
4) nella Toscana è inclusa anche l'Umbria settentrionale.
Nonostante questi limiti, la classificazione di Dante ha già una indiscutibile validità.
Nei capitoli successivi egli dimostra una buona conoscenza dei vari volgari regionali, che esamina uno per uno, senza risparmiare critiche e commenti sprezzanti. La sua ricerca comunque risulta produttiva, poiché egli individua un vasto patrimonio comune a tutti i volgari d’Italia e riconosce inoltre che ciascun volgare, per quanto rozzo, contiene in sé il “profumo” del “volgare illustre”, la lingua ideale che sta al di sopra di tutti (e che oggi costituisce la nostra lingua italiana).
Dante però avvisa che solo pochi autori si sono mostrati all’altezza della nuova e nobile lingua. Inoltre tiene a sottolineare che il volgare illustre non può essere identificato con il toscano, e critica apertamente quei suoi corregionali che, “confusi dalle loro stupidaggini, si arrogano il titolo del volgare illustre”. A questo proposito cita alcuni autori toscani per mostrare che le loro poesie “sono scritte in una lingua municipale [cioè locale] e non curiale [cioè nazionale]”. I,XIII,1. Secondo Dante solo quattro autori toscani hanno ricercato una lingua più elevata ed universale e si sono rivelati capaci di scrivere nel volgare illustre: uno è Cino da Pistoia; gli altri tre sono fiorentini: Lapo Gianni, Guido Cavalcanti e Dante stesso. Egli inoltre elogia autori di altre regioni, come il bolognese Guido Guinizzelli ed alcuni poeti della Scuola Siciliana, la cui lingua “non differisce in nulla da quella lodevolissima” (I, XII, 6).
158 - La lingua francese dev’essere considerata più antica di quella italiana di circa due secoli (La "Chanson de Roland" risale al 1100 circa). Infatti in Italia la tradizione legata al latino classico era ancora troppo forte. Tuttavia occorre sottolineare che la Francia dovette attendere il 1533 prima di avere un saggio che descrivesse le diverse varianti volgari parlate in Francia (mentre per l’Italia il DVE di Dante lo aveva fatto già nel 1304). Lo scritto in questione (in latino come il DVE) si intitola "De Differentia vulgarium linguarum et Gallici sermonis varietate" ed è di Charles de Bovelles (1479-1553). Noi italiani inoltre siamo avvantaggiati rispetto ai francesi perché possiamo leggere i testi del Medio Evo senza traduzione. I francesi per esempio leggono i romanzi di Lancillotto con la traduzione (testo a fronte), perché la lingua è cambiata troppo. Noi leggiamo Dante senza testo a fronte (anche se sono necessari dei commenti perché non sempre risulta di facile lettura). Quasi lo stesso si può dire dell'inglese medievale (Chaucer, padre della letteratura inglese, visse mezzo secolo dopo Dante).
159 - Nella costituzione francese viene esplicitamente specificato che la lingua ufficiale della nazione è il francese. La costituzione italiana non specifica nulla a riguardo, perché gli stati italiani preunitari avevano già adottato spontaneamente la lingua italiana. Il grande studioso di linguistica Noam Chomski affermò: "Le lingue sono i dialetti con l'esercito e la marina". Chomski intende dire che la maggior parte delle lingue si sono imposte con la forza. Questo non è successo in Italia, poiché tutti gli Stati pre-unitari italiani avevano adottato la lingua di Dante come lingua ufficiale, per motivi naturali (sostituendo il latino). Inspiegabilmente oggi qualcuno afferma che la lingua italiana è stata imposta dai Piemontesi nel 1861, questa è un'affermazione chiaramente falsa e priva di fondamento.
160 - Torniamo al Medio Evo: poiché i poeti della Scuola Siciliana scrivevano già in un "volgare illustre" molto "italianizzato", ci possiamo chiedere come scriveva un siciliano che non aveva ancora una visione "universale" o nazionale. Ebbene, ecco l'inizio del "Codice Spatafora" su "La Maniscalchia di li caualli", scritto nel 1368 da Bartolomeo Spatafora (che probabilmente ripende un testo più antico):
“Intra tuti li animali creati da lu altissimu maistru criaturi di tutti li cosi, li quali sunu sutamisi ala humana genuaciuni, nullu animali sia plui nobili di lu cauallu”.
Questo passo si può trovare sul sito www.linguasiciliana.org, il cui proposito sarebbe quello di dimostrare che il siciliano/calabrese è una lingua a se stante, diversa dall'italiano.
161 - Masuccio
Salernitano, pseudonimo di Tomaso dei Guardati (Salerno 1410 - 1475),
ispirandosi ad una leggenda di Siena scrisse un racconto con protagonista
Mariotto e Ganozza (novella 33 dal Novellino), che ispirò il veronese Luigi Da
Porto a scrivere "Giulietta e Romeo" (1524), poi ripreso da William
Shakespeare (1591), che ottenne un successo una fama di livello mondiale.
Difficilmente Masuccio Salernitano si ritrova nelle attuali antologie della
letteratura italiana, poiché la sua lingua viene considerata ancora
"impura" e "regionale". Eppure il veronese Da Porto la
comprese benissimo, visto che lo indusse a scrivere "Giulietta e
Romeo", basandosi su reali fatti storici di Verona. Ecco il riassunto
della novella originaria, nelle parole dello stesso Masuccio: "Mariotto senese, innamorato de
Ganozza, como ad omicida se fugge in Alissandria; Ganozza se fenge morta, e, da
sepultura tolta, va a trovare l'amante; dal quale sentita la sua morte, per
morire anco lui retorna a Siena, e, cognosciuto, è priso, e tagliatole la
testa; la donna nol trova in Alissandria, retorna a Siena, e trova l'amante
decollato, e lei supra 'l suo corpo per dolore se more."
162 - Il primo autore non toscano che adottò esattamente la lingua codificata da Dante, Petrarca e Boccaccio, fu Jacopo Sannazzaro o Sannazaro (Napoli 1456-1530), autore della celebre "Arcadia". Contemporaneo del napoletano Sannazzaro fu l'emiliano Matteo Maria Boiardo (Scandiano, Reggio Emilia, 1441 - Reggio Emilia 1494), autore dell'Orlando Innamorato, che scrisse anch'egli nel cosiddetto "toscano illustre" (cioè nell'italiano standard).
La scrittura di quest'opera fu interrotta durante l'invasione dei francesi, come riportato negli ultimi versi: "Mentre che io canto, o Iddio redentore, vedo la Italia tutta a fiamma e a foco".
Il poema sarà continuato da Ludovico Ariosto con l’Orlando Furioso. Ariosto, come Boiardo, era di Reggio Emilia e operò a Ferrara. Altro grande poema del '500 sarà la "Gerusalemme Liberata" del sorrentino Torquato Tasso. Nel '400 e nel '500 iniziano a diffondersi anche i primi testi di grammatica della lingua volgare.
163 - Due napoletani che si preclusero una fama ben maggiore, per motivi diametralmente opposti, furono Giovanni Pontano (Spoleto, Umbria, 1429 - Napoli 1503), che volle scrivere solo in latino, e Giambattista Basile (Napoli 1580 - 1632), che scrisse solo poche opere in italiano standard, e volle comporre le sue opere maggiore (tra cui "Lo cunto dei cunti") in volgare napoletano. Basile è comunque riconosciuto come il più grande autore dialettale italiano. Egli criticava le giovani napoletane, che parlavano in "toscanese", e rimpiange il "tempo antico" (!), come si vede da questo passo estratto da "Calliope, overo la Museca":
"O bello tiempo antico, e canzoni
massicce...
Dov'è iuto lo nomme vuosto, dove la famma,
o villanelle meie napolitane?
Ca mo' cantate tutte 'n toscanese..."
Se avesse scritto prevalentemente in italiano standard, Basile avrebbe potuto ottenere l’enorme successo riscosso dal suo conterraneo e maestro Giambattista Marino (Napoli 1569-1625), il maggior poeta italiano del '600. Marino fu acclamatissimo, ammirato e richiesto in tutta l'Italia dell'epoca. E’ rimasto celebre come il "poeta della meraviglia":
"E' del poeta il fin la maraviglia... chi non sa far stupir vada alla striglia".
164 - Nel 1583 a Firenze viene fondata l'Accademia della Crusca, per la codificazione della corretta lingua italiana. Secondo alcuni commentatori, la Crusca ha contribuito ulteriormente all’eccessiva "toscanizzazione" o "fiorentinizzazione" della lingua italiana, come abbiamo già visto nel punto 50. Perciò è bene accennare alla questione secolare che ha contrapposto i "fiorentinisti" agli "italianisti". I primi sostenevano che la lingua italiana dovesse fare riferimento al fiorentino illustre. I secondi invece ritenevano che la lingua italiana dovesse tener conto di tutti i volgari regionali.
Tra i fiorentinisti ricordiamo (oltre agli Accademici della Crusca) Niccolò Machiavelli, Giovan Battista Niccolini, il milanese Alessandro Manzoni e forse il napoletano Basilio Puoti (v. punto 58). Manzoni nel 1827 sentì la necessità di recarsi a Firenze per "sciacquare i panni in Arno", cioè per meglio adeguare al fiorentino illustre la lingua in cui egli aveva scritto la prima stesura de "I promessi sposi". Tra gli italianisti ricordiamo Dante Alighieri (DVE, punto 157), Giangiorgio Trissino (punto 47), Jacopo Corbinelli, Torquato Tasso, Ludovico Muratori, Vincenzo Monti, Giulio Perticari. Va notato che Dante e Corbinelli erano fiorentini ma non fiorentinisti.
Per fortuna il rigore della Crusca e dei fiorentinisti non impedì il diffondersi di vocaboli regionali, che hanno potuto contribuire alla ricchezza della lingua italiana. L’uso naturale della lingua ha perfino fatto cadere in disuso alcune parole esclusivamente toscane, incluse forzatamente nella lingua italiana pur non essendo usate nelle altre regioni. Ad esempio: “balocco”, oggi sostituito da “giocattolo”. “Mesticheria”, oggi superato da “ferramenta” o “coloreria”. L’avverbio “punto”, nel senso di “affatto”, oggi utilizzato solo in alcune zone della Toscana. Ed ancora, il pronome dimostrativo “codesto”, non utilizzato nella lingua parlata (questa perdita però costituisce un danno per l’espressività e la precisione della lingua).
Avevamo già ricordato (nel punto 50) che le due parole italiane oggi più conosciute nel mondo sono "Pizza" (di origine napoletana) e "Ciao" (di origine veneziana).
165 - Se per assurdo la Toscana non fosse mai esistita, è presumibile che i "volgari" delle diverse regioni italiane si sarebbero comunque ripuliti ed evoluti verso un'unica lingua nazionale, come risulta evidente dai vari esempi riportati finora. Ovviamente il percorso sarebbe stato più difficoltoso se fosse mancato l’esempio di Dante e degli altri grandi toscani. Oggi però alcuni commentatori considerano i dialetti italiani quasi come "lingue diverse" tra di loro. Eppure l'affermazione di Chomski (punti 159 e 175) non può certamente applicarsi all'Italia. Cercheremo di risolvere questa controversia più avanti, nel punti 171, 172 e 173, dove citeremo una "prova" davvero sorprendente a favore della nostra tesi.
Per adesso possiamo sottolinare che se il toscano non fosse esistito, il "napoletano illustre" sarebbe stato come quello di Basile, o ancor meglio quello di Masuccio Salernitano (v. punto 161), che risulta più "imparziale" di Basile (infatti quest'ultimo si era volontariamente contrapposto al "toscanese" e quindi è evidente che abbia cercato volontariamente espressioni più "locali", che si distinguessero dal "toscanese"). Il "napoletano illustre" traspare anche da alcune espressioni popolari, come ad esempio il titolo che il povero pescivendolo Masaniello si attribuì nella rivoluzione napoletana del 1647 contro gli spagnoli: "Preposto e Prefetto Generale de lo Fedelissimo Popolo Napolitano".
166 - Chiediamoci: invece di un'unica lingua comune, avrebbe avuto senso creare lingue diverse da quella di Masuccio, di Dante, dei poeti siciliani (che Dante considerava già uguale alla sua, v. punto 157), Miracole de Roma (punto 154) e di Fra Bonvesin de la Riva (punto 155)? Certo, si potevano sviluppare anche tre o più lingue separate. Gli scandinavi hanno fatto proprio così ed oggi hanno ben 5 lingue diverse, di cui 4 risultano molto simili tra di loro: danese, svedese, e due tipi di norvegese (il finlandese invece è effettivamente diverso e non accomunabile alle prime 4). Il risultato è che nessuna di queste 4 lingue è conosciuta a livello internazionale. Gli svedesi ormai sono così abituati a parlare inglese che stanno iniziando a dimenticare la propria lingua. Non sarebbe stato meglio fare un piccolo sacrificio e modificarla leggermente per unificarla col danese e col norvegese per creare una lingua più forte? Questo argomento sarà ripreso nel punto 175. L'unione fa la forza: la lingua italiana unificata, pur essendo la diciannovesima nel mondo come numero di parlanti, è attualmente la quarta lingua più insegnata e studiata al mondo (v. punto 180): un risultato straordinario, se confrontato col numero di parlanti. Inoltre la lingua italiana è fin dal diciassettesimo secolo la lingua internazionale della musica (come vedremo meglio nei punti 167 e 168), e oggi risulta importante anche in altri campi, come l’arte in generale, la moda e la gastronomia.
167 - A partire dal diciassettesimo secolo la lingua italiana si afferma a livello internazionale come la "lingua della musica" (nonostante la decadenza civile e culturale dell'Italia). Ancora oggi i musicisti di tutto il mondo utilizzano i termini musicali in italiano (nonostante l'incalzare dell'inglese nella musica moderna). Per espandere quanto detto ai punti 21 e 54, vediamo alcune parole italiane conosciute dai musicisti di tutto il mondo: alcune sono famosissime, come "Concerto", "Maestro", "Opera", "Orchestra", "Pianoforte" (o "Piano"), "Ritornello", "Sonata" o "Tempo" (quest'ultimo inteso in senso musicale).
Ecco alcune parole prevalentemente di scrittura musicale: A Cappella, Accelerando, Adagio, Al Fine, Allegro, Andante, Aria, Assai, Cantabile, Coda, Con Brio, Con Spirito, Crescendo, Da Capo (D.C.), Dal Segno (D.S.), Dolce, Finale, Forte (f), Fortissimo (ff), Giocoso, Grave, Largo, Legato, Lento, Maestoso, Mezzoforte (mf), Moderato, Non troppo, Pianissimo (pp), Piano (p), Presto, Rallentando, Sincopato, Solfeggio, Staccato, Toccata, Vivace.
Parole riferite a strumenti musicali, voci o suoni: Celeste, Fagotto, Falsetto, Oboe, Pizzicato, Soprano, Sotto Voce (scritto così, separato), Tenore, Tremolo, Trio, Trombone, Tuba, Vibrato, Viola, ecc.
Alcune parole legate più alla musica popolare che a quella colta: Ballata, Cantata, Mandolino, Serenata, Tarantella.
Alcune parole che in inglese sono state deformate: Alto (Contralto), Baritone, Cello (Violoncello), Contrabass (Contrabbasso), Clarinet, Contra Fagotto (Controfagotto), Piccolo (Flauto piccolo), Quartet, Quintet, Trumpet (Tromba), Solo (Assolo), Violin.
Certe parole italiane non strettamente musicali sono diventate famose attraverso la musica, come ad esempio: Bis, Bravo, Capriccio, Divertimento, Finale, Impresario, Libretto, Scherzo, Viva. Esiste poi una minoranza di termini musicali in lingua francese (ad esempio Air, Badinerie, Bourree, Gavotte, Nocturne, Ouverture, Rondeaux, Suite).
168 - Per vedere alcuni esempi concreti di notazione musicale in italiano, esaminiamo alcuni brani famosissimi di musica classica, scritti da grandi musicisti europei,
"Toccata und Fuge" di Bach, BWV 565, scritta nel 1707, cambia tempo molte volte: la Toccata inizia con il tempo "Adagio", ma in due punti raggiunge il "Prestissimo". La Fuga invece inizia con "Maestoso" e procede a lungo con questo tempo. Nel finale rallenta fino ad "Adagissimo".
La sinfonia più celebre di Mozart è la n.40 (K550, scritta nel 1788), i cui movimenti sono:
1) Allegro molto; 2) Andante; 3) Menuetto (Allegro); 4) Finale (Allegro assai).
Nota: Mozart scrisse proprio "Menuetto" invece di "Minuetto".
Mozart preferiva scrivere opere in cui anche il "libretto" (cioè il testo da cantare) fosse in lingua italiana. Alcune sue opere celebri sono: Le Nozze di Figaro (K492, scritta nel 1786); Don Giovanni (K527, 1787); Così fan tutte (K588, 1789).
La celeberrima Quinta Sinfonia di Beethoven (anno 1808) ha 4 "movimenti":
1) Allegro con Brio; 2) Andante con Moto; 3) Allegro; 4) Allegro - Presto.
La nona sinfonia di Beethoven (anno 1823) è stata dichiarata Inno della Comunità Europea. Il suo ultimo movimento ("Presto") contiene una parte cantata (cosa insolita per una sinfonia), il cui testo è in lingua tedesca. Si tratta di "An die Freude" ("Inno alla Gioia") di Schiller. Tuttavia i suoi 4 Movimenti, come tutte le composizioni sinfoniche, hanno il tempo indicato in italiano: 1) Allegro, ma non troppo, un poco maestoso; 2) Molto vivace; 3) Adagio molto e cantabile; 4) Presto.
Il Notturno (Nocturne) op.9 n.2 di Chopin (anno 1830) ha un solo movimento, il cui tempo è "Moderato". Sotto il tempo, Chopin ha riportato anche l'indicazione "Dolce".
Il Concerto n.1 per Pianoforte e Orchestra di Ciaikoski o Tchaikovski (1875) ha i seguenti movimenti: 1) Allegro non troppo; 2) Andantino semplice; 3) Allegro con fuoco.
169 – La lingua italiana veniva utilizzata da alcuni musicisti stranieri non solo negli spartiti (come voleva la prassi), ma talvolta anche nei testi o nei titoli (si ricordino le opere di Mozart). Vediamo altri esempi significativi. Il musicista tedesco Felix Mendelssohn-Bartholdy nel 1833 chiamò “Italiana” la sua Sinfonia n.4 (op.90)
Il musicista ungherese Franz Liszt nel 1838 dedicò all'Italia la seconda annata dei suoi "Années de Pèlerinage" e nel 1840 vi aggiunse "Venezia e Napoli" (titolo originale in italiano), che è un insieme di brani romantici per pianoforte, comprendenti tra l'altro una celebre "Tarantella". Liszt scrisse molti altri brani con titolo in italiano (ad esempio la "Sinfonia Dante", del 1856).
Il musicista russo Piotr Ilyich Tchaikovski (o Ciaikoski) nel 1880 scrisse il "Capriccio Italien" (questo è il titolo originale). A quel tempo l'unificazione d'Italia era già avvenuta, ma qui la cosa interessante da notare è un’altra: il Capriccio Italien è formato da due brani che Ciaikoski riprese dalla musica popolare, e cioè una tarantella napoletana e una canzone veneta. Questo significa che Ciaikoski trovava naturale accostare Veneto e Campania, così come Liszt aveva trovato naturale accostare Venezia e Napoli, cioè due regioni e due città che noi consideriamo molto diverse tra di loro. Evidentemente dall'esterno è più facile scorgere una certa similitudine ed omogeneità tra le regioni italiane, mentre noi dall’interno siamo abituati a vedere solo le differenze e a enfatizzarle.
Un ulteriore esempio può essere utile ai più scettici: Gioacchino Rossini nel 1813 compose l'opera "L'italiana in Algeri". Questo titolo dimostra (ammesso che a questo punto ve ne sia ancora bisogno) che il concetto di "italianità" era sentito e riconosciuto ben prima dell'Unità d'Italia. D’altronde le opere liriche venivano scritte e cantate in italiano già due secoli prima.
170 - Come anticipato nel punto 104, l'Italia linguistica (ovvero il territorio dove tradizionalmente venivano o vengono parlati dialetti di matrice italica e gallo-italica) corrisponde quasi esattamente alla Diocesi Italiciana (appartenente all'Impero Romano), con le seguenti eccezioni: Tirolo (Austria); Alto Adige (provincia di Bolzano), di tradizioni tirolesi e di lingua tedesca; Val d'Aosta, di tradizione Franco-Provenzale; piccole comunità Slovene nel Friuli Venezia Giulia; pochi paesini di lingua Albanese e Greca nell'Italia Meridionale e in Sicilia, come Piana degli Albanesi. Arrivate fin dal Medio Evo, quest’ultime popolazioni ebbero una scarsa assimilazione con i "latini" che vi abitavano (cioè gli italiani), come dimostra questo bruttissimo detto popolare: "Si vai a lu boscu e vidi lu lupu e lu grecu, lassa lu lupu e spara a lu grecu" (in realtà questo esempio si riferisce agli Albanesi, che venivano venivano chiamati anch’essi "Greci").
171 - Nel punto 165 avevamo detto che se la Toscana non fosse esistita, presumibilmente l'Italia sarebbe giunta comunque ad avere una sua lingua unificata, anche se il processo sarebbe stato più lento e difficoltoso. Stranamente questo oggi è un punto controverso. Negli ultimi decenni si sono diffuse sempre più le convinzioni che i diversi dialetti italiani siano lingue diverse. Ma questa visione non è mai stata condivisa dai glottologi, che considerano come possibili lingue separate solo il Sardo (escluso però quello del nord dell'isola) e il Friulano interno (che è una forma di ladino). In ogni caso esse rimangono lingue piuttosto vicine all'italiano. In realtà tutti i dialetti, se vengono "raffinati", tendono a diventare più simili tra di loro e a confluire praticamente in un'unica lingua, come fu intuito già da Dante (v. punto 157), che peraltro non escluse da questo processo né i Sardi né i Friulani. La lingua italiana di fatto è un ottima "sintesi" tra tutti i dialetti (in statistica e nelle scienze esatte si direbbe che è un "fit" eccellente). Così, se per assurdo non fosse nata un’unica lingua italiana, oggi avremmo tre, quattro, dieci o più lingue raffinate, molto simili tra loro, almeno come lo sono oggi lo spagnolo e il portoghese. Qui però alcune persone obiettano che non esiste una controprova che possa confermare questo ragionamento teorico e quindi le diverse lingue regionali avrebbero potuto evolversi in modo autonomo e diventare molto diverse tra di loro. La risposta inaspettata e sorprendente che possiamo dare è che invece la controprova esiste!”. Incredibilmente c’è una lingua originariamente italica, che pur avendo subito un'evoluzione a sé stante, è rimasta molto simile alla nostra lingua attuale! La esamineremo nei due punti seguenti.
172 – Occorre premettere che alcune terre, pur non avendo mai fatto parte del territorio dell'Italia unita, hanno un dialetto italiano. Il caso più evidente è il Canton Ticino in Svizzera, dove il dialetto è di tipo lombardo e la lingua ufficiale è ovviamente l'italiano. Esiste però un'altra terra in cui è stata imposta una lingua straniera (come unica lingua ufficiale!) e che tuttavia mantiene ancora un dialetto locale chiaramente italico (anche se gli abitanti locali considerano una lingua a se stante). Vediamone un esempio, riportando alcuni passi scritti in questa lingua e che trattano proprio di linguistica (in particolare delle lingue neolatine):
"Un certu gradu di latinità hè u criteriu principale chì permette di classificà e diverse lingue neulatine ind'a famiglia di e lingue rumanze (talianu, spagnolu, portughese, sardu, rumenu, francese...). Sò dunque e lingue nate da a latinisatione dì i paesi cunquistati da Roma, da u quartu seculu prima à Cristu à u secondu seculu dopu à Cristu. Ma issa latinisazione ùn hà micca inghjennatu dapertuttu lingue rumanze. Hè stata più prufonda in u centru di l'imperu rumanu è menu impurtante in e cunfine. [...] Dialettu o lingua? [...] Ci vole à dì chì da u puntu di vista di i linguisti, l'impiegu di una o l'altra parulla ùn traduce micca una sfarenza di natura ma piuttostu una sfarenza di puntu di vista. Tuttu u sistema linguaghjaghju propriu à una cummunutà, sia cum'ella sia, hè in listessu tempu lingua è [e] dialettu sicondu ch'ellu hè cunsideratu in sè stessu o piazzatu ind'è un'universu più ampiu".
Che lingua sarà mai questa, che è così comprensibile e simile all'italiano, e che ci ricorda un po' il sardo (del nord), il siciliano e il calabrese, ma anche un po' l'umbro e il ciociaro, e che in qualche espressione assomiglia ai vernacoli toscani e talvolta anche al genovese? Prima di svelarlo, è bene avvisare che gli abitanti di questa regione non si considerano "italiani" e desiderano fondamentalmente che la loro terra sia indipendente. In effetti la sua evoluzione storica esclude che oggi possa essere considerata italiana, a parte gli aspetti linguistici (riguardanti però solo la lingua popolare e non quella ufficiale).
Ebbene, la regione in questione è la Corsica, l'isola che si trova a nord della Sardegna e a sud del Mar Ligure e che appartiene alla Francia fin dal 1768, un anno prima della nascita di Napoleone ad Ajaccio. L'isola era già stata francese per qualche anno durante il sedicesimo secolo. Il brano riportato sopra è stato estratto dal sito www.accademiacorsa.org. La Francia ha imposto in Corsica il francese come unica lingua ufficiale, che viene insegnata nelle scuole come "lingua madre" e che dev’essere utilizzata per legge. Pertanto la "Lingua Corsa" è stata utilizzata solo in ambito familiare o tra amici ed oramai è poco conosciuta dai giovani, sebbene negli ultimi anni alcune leggi le abbia concesso un parziale riconoscimento (ma non certo il "bilinguismo", che resta ancora lontano).
173 - Leggiamo altri passi in questa lingua così particolare, che suscita una simpatia immediata e naturale negli italiani e che può costituire la definitiva "prova del nove" su quanto avevamo dichiarato nei punti 165 e 171. "Lingua corsa è [e] lingua francese, ùn sò esciute da a stessa aghja linguìstica. S'è corsu è [e] talianu eranu cumplementarii, corsu è [e] francese ùn ponu esse chè in cuncurenza. Chi li restava à fà à u corsu? O sparisce o diventa una lingua cumpìita. Fù Santu Casanova chì ebbe issa bella idea quand'ellu fundò in u 1896, A Tramuntana. Ci eranu stati ancu nanzu scritti in corsu, cum'è per esempiu a puesia giocosa, ma eranu soprattuttu, puesia è literattura orale".
Questa era la continuazione del brano visto nel punto 172. Vediamone adesso un altro, estratto dal Forum online del sito del "Journal de la Corse", www.jdcorse.com, in cui l'autore augura un riavvicinamento alla lingua italiana (che però non tutti i Corsi condividono):
"Perche a cunniscenza e l'adopru di a
lingua taliana so necessarii a' u campa' di a lingua Corsa? Perchè sò duie
lingue di l’istessu stampu, sò traminduie isciute da u latinu, cum’e u
spagnolu, u francese, u portughese e u rumenu chì sò tutte lingue rumanze. Ma u
talianu è assai più apparentatu à u corsu chè tutte quill’altre [...]”.
Chiaramente questa lingua è molto simile all'italiano, perfino più dello spagnolo (lingua che normalmente viene considerata la più vicina alla nostra). E' vero che l'utilizzo della lingua Corsaoggi si è ridotta al lumicino, poiché è stata superata (nella stessa Corsica) dal francese e forse perfino dall'arabo (parlato dagli immigrati). Tuttavia, in ciò che sopravvive, “u Corsu” rimane straordinariamente simile alla lingua d'Italia e a vari suoi dialetti. Eppure il 1768, anno in cui la Corsica è diventata definitivamente francese, è ormai lontanissimo! Da questa data passarono quasi cent’anni prima di giungere all’Unità d’Italia. Nel 1768 in Francia c'era ancora il Re Luigi XV (e non ancora il XVI). Napoleone non era ancora nato, gli Stati Uniti d'America non esistevano ancora e la Rivoluzione Francese ebbe inizio 21 anni più tardi. Non esisteva nemmeno il sistema metrico decimale, con le unità di misura che oggi ci sono familiari: metro, chilometro, grammo, chilogrammo, litro, eccetera. Non esisteva quasi nulla della tecnologia moderna (nemmeno il treno). Dal 1768 ad oggi il mondo ha vissuto sconvolgimenti di ogni tipo, ma questo non ha alterato l’italianità della lingua Corsa, che ancora oggi rimane evidente.
174 - Riassumiamo quindi il risultato dello questo insolito "esperimento" sociologico e linguistico (che i nostri amici ed ex-connazionali hanno dovuto vivere forzatamente): prendiamo una regione con un dialetto italico; separiamola dall'Italia per oltre due secoli, imponendovi una lingua straniera come unica lingua ufficiale... Il risultato finale è che l’italianità linguistica di questa regione continua a sopravvivere. A questo punto, non so come si possa ancora contraddire ciò che abbiamo dichiarato nei punti 165 e 171.
175 - Riprendiamo l'argomento trattato nel punto 166, sulle piccole differenze tra le lingue scandinave: lo stesso si può dire di altre lingue, per cui possiamo individuare i seguenti gruppi. 1) Danese, svedese e due tipi di norvegese. 2) Hindi, bengali ed altre lingue indiane. 3) Russo, bielorusso ed ucraino. 4) Ceco e slovacco. 5) Serbo e croato (anche se il primo venga scritto in caratteri cirillici, come il russo, ed il secondo nei nostri caratteri romani).
Potremmo elencare anche includere un sesto gruppo, quello delle lingue iberiche, cioè spagnolo (castigliano), catalano, portoghese e gallego (lo spagnolo e il portoghese hanno avuto comunque una grande diffusione nel mondo). La Spagna di Francisco Franco ha imposto l’utilizzo esclusivo del castigliano. L’uso del catalano è stato di nuovo autorizzato a livello ufficiale solo da pochi anni, per cui si può dire che Barcellona è "bilingue", mentre addirittura il Principato di Andorra adotta il catalano come unica lingua ufficiale! Il gallego invece può essere definito “portoghese”, sebbene la Galizia si trovi in Spagna. Nel Nord-Est della Spagna esiste poi un’altra lingua, che non è neo-latina e nemmeno indo-europea, ovvero il Basco.
La Francia fin dal sedicesimo secolo ha eliminato la lingua d'oc (il Provenzale e più in generale l'Occitano) ed ha imposto la lingua d'oil (il Francese del Nord). Inoltre non riconosce le minoranze linguistiche sul territorio francese, come la minoranza tedesca a Strasburgo e in tutta l'Alsazia, quella Gaelica in Bretagna, quella Basca e Catalana al confine con la Spagna, quelle Italiche in Corsica e nella zona del Principato di Monaco. Quest'ultime (tra Nizza e Ventimiglia) sono quasi estinte (si parla solo francese), ma i nomi italiani delle località interne al Principato di Monaco restano come indiscutibile testimonianza storica: Montecarlo o Monte Carlo, Moneghetti, Grimaldi, Larvotto e lo stesso Monaco.
In Inghilterra, tra i diversi dialetti, si è imposto quello di Londra ("Estuary English"), che poi è stato trapiantato anche in Scozia, Galles ed Irlanda, dove le lingue originali erano Gaeliche, cioè ben diverse dall'inglese (per esempio in gallese "Dim Sassenach" significa "Niente inglese").
In questi casi è certamente vero ciò che ha dichiarato il linguista Chomski: "Le lingue sono i dialetti con l'esercito e la marina" (v. punto 159). L'affermazione di Chomski però non vale per l'Italia e per la Germania, dove le rispettive lingue si sono imposte in modo "naturale".
In Germania la divisione e diramazione tra i dialetti è ancora più varia e complessa rispetto a quella che si ha in Italia. Esiste perfino uno stadio intermedio tra "lingua" e "dialetti", ovvero gli "idiomi". Un "idioma" è regionale, come un dialetto, ma è più "illustre", quasi come la lingua. Esempi di "idiomi" molto usati sono lo svizzero tedesco e il bavarese (quest'ultimo è parlato anche in gran parte dell'Austria).
Comunque, in Germania così come in Italia, la contrapposizione tra lingua e dialetto non dovrebbe essere sottolineata più di tanto, come si fa invece da qualche anno a questa parte. Lingua e dialetti formano un sistema unico, ampio, ricco e completo. Come già detto nel punto 164, la nostra tradizione popolare ha permesso che parole ed espressioni dialettali penetrassero nella lingua, regalandoci così una ricchezza espressiva forse ineguagliabile.
176 - Dobbiamo prendere in considerazione un'ultima obiezione all'unità di fondo delle parlate d'Italia. Alcuni glottologi (una minoranza) dividono le lingue neolatine in due gruppi, uno "occidentale" ed uno "orientale": le lingue del gruppo occidentale sarebbero parlate in Spagna, Portogallo, Francia e Italia del Nord. Le lingue del gruppo orientale invece sarebbero parlate nell'Italia centro-meridionale, comprese le isole, e in Romania.
Come si vede, questa classificazione spacca l'Italia in due, secondo la "linea gotica" o la cosiddetta "linea Rimini - La Spezia". Gli italiani del nord sarebbero quindi accomunati ai francesi, agli spagnoli e ai portoghesi e non ai toscani, i quali invece, insieme a tutti gli Italiani centro-meridionali andrebbero accomunati ai rumeni.
Che cosa possiamo rispondere? Effettivamente questa linea esiste; però: 1) separa i dialetti italiani del nord da quelli del centro-sud e non certamente lingue diverse; 2) congiunge non Rimini a La Spezia bensì Senigallia (Ancona) a Massa e Carrara. E' vero che alcuni dialetti del nord possono essere definiti gallo-italici (con l'esclusione del veneto e forse anche del ligure). Ma questo non è certamente sufficiente per aggregarli alla "Gallia" vera e propria, cioè alla Francia. Gli unici dialetti realmente "galli" in Italia sono quello della Val D'Aosta (Franco-Provenzale) e quelli dell'interno di alcune "Valadas" piemontesi (Occitane/Provenzali), che occupano piccole aree montuose del Piemonte occidentale, sulle Alpi, al confine con la Francia. In Val d'Aosta è in già in vigore da decenni il bilinguismo Italiano-Francese.
Non perderemo tempo a discutere di questa divisione tra “lingue latine occidentali” e “orientali”, che pochi glottologi accettano e che sembra stata creata solo per spaccare l’Italia in due. Metteremo solo in evidenza 5 dati di fatto, lasciando giudicare il lettore.
Se la linea Rimini – La Spezia fosse davvero così importante, allora:
1) Uno spagnolo dovrebbe capire più facilmente un francese piuttosto che un napoletano o un siciliano. Inoltre un veneziano dovrebbe capirsi maggiormente con un parigino piuttosto che un romano. Oppure un fiorentino dovrebbe capire più una persona di Bucarest invece che una di Venezia... E’ credibile tutto questo?
2) Gli svizzeri del Canton Ticino (il cui dialetto è lombardo) sarebbero piuttosto stupidi, poiché hanno scelto l'italiano come loro lingua ufficiale e non il francese! Avrebbero dovuto fare come i Cantoni occidentali della Svizzera (vedi Ginevra, Losanna e molte altre città svizzere in cui la lingua ufficiale è il francese).
3) Anche Dante sarebbe uno stupido, visto che nel 1304 incluse i dialetti nel Nord Italia nella "lingua del sì", cioè nell'italiano (De Vulgari Eloquentia, punti...) e non nella lingua d'oc (Francia meridionale) o d'oil (Francia settentrionale).
4) Anche il Duca Emanuele Filiberto di Savoia sarebbe uno stupido, visto che nel 1560 in adottò due lingue ufficiali diverse: l'Italiano in Piemonte; ed il francese in Savoia e in Val d'Aosta. Se la linea linguistica Rimini - La Spezia fosse stata veramente così netta e importante, avrebbe dovuto adottare anche il francese anche in Piemonte, invece della lingua dei poeti "toscani" e "siciliani", che si trovavano al di là della fatidica linea.
5) Prima di accettare la validità di questa linea, dovremmo sottolineare un fatto molto più importante e basilare: in realtà le lingue neolatine nascono dal latino, che è l’antica lingua di Roma. Perciò sarebbe più corretto dire che il provenzale ed il francese sono dialetti romani! Al limite, potremmo perfino definire il francese come un dialetto italiano particolarmente modificato. Questo può far ridere, ma è pur sempre più sensato rispetto alla visione invertita secondo cui i dialetti del Nord Italia andrebbero aggregati al francese. In realtà anche il francese deriva dagli Antichi Romani. Quindi non capovolgiamo la realtà e ricordiamo che tutto nasce da Roma, e non da Tolone o da Avignone (con tutto il rispetto per queste bellissime città, che oggi sono sicuramente più civili delle nostre).
177 - Riprendiamo il discorso sui dialetti come presunte “lingue separate” (v. punti 165, 171 e 174). A questo proposito ho trovato utile uno scritto di un certo "Shelburn" che ho trovato su un Forum di Internet (e che si può facilmente ritrovare tramite una ricerca con Google).
Pur difendendo l'uso del dialetto napoletano, Shelburn non lo considera una "lingua" e comunque non si oppone all'esistenza dell'italiano standard come lingua di riferimento.
"Prendo spunto da alcune considerazioni tratte dal libro 'Il napoletano parlato e scritto' [di De Blasi e Imperatore, Ed. Dante & Descartes]. Il napoletano è lingua o dialetto? Precisiamo subito che il problema non deve essere drammatizzato. Innanzi tutto dialetto proviene dal greco diàlektos che significa appunto lingua. Certo, rispetto alla lingua ufficiale, il dialetto ha una diffusione geografica più limitata e può contare su un prestigio minore; ma è anche vero che una lingua e i suoi dialetti hanno la stessa origine, poiché discendono da una stessa lingua madre. Anche per questo motivo il rapporto napoletano-italiano non può essere vissuto polemicamente, né in forma sterilmente competitiva [...]. E' certo che non sono sufficienti i requisiti in genere addotti per sostenere che il napoletano sarebbe una lingua. Cioè l'avere una letteratura ricca, l'essere usato nelle canzoni o nel teatro, sono qualità che al massimo possono far concludere che il napoletano sia una lingua letteraria, ma la letteratura, il teatro, la canzone non rappresentano tutto l'universo di una lingua. Il napoletano invece non è usato (e non è stato mai usato, checché se ne dica) come lingua ufficiale, nella burocrazia, nella politica, nei tribunali. In secondo luogo, a proposito di lingua dominante, è bene sfatare un altro equivoco, in cui spesso cade chi conosce poco la storia dell'italiano e dei dialetti: l'italiano non è una lingua che si sia imposta con metodi oppressivi e autoritari [v. Chomski, punto 159]. L'italiano è stato semplicemente scelto e usato come lingua di espressione scritta e poi lingua ufficiale da milioni di persone, che hanno trovato molto più comodo e funzionale usare una lingua che fosse letta e intesa da un capo all'altro della penisola. Questa penisola era percepita come un'unità culturale già nel Medioevo [...]: certo, non tutti lo sanno, molti fingono di non saperlo. Il vero problema è semmai la speranza che il napoletano continui a esistere nell'uso. [...] Infatti una lingua non vive (e non rinasce) se il suo uso non corrisponde all'utilità del parlante. Fin quando sarà utile, il napoletano resisterà. Noi possiamo solo concorrere a questa resistenza culturale”.
178 – Concludiamo il discorso sul dialetto napoletano, che è quello che viene citato più spesso quando si parla dei dialetti come possibili “lingue” autonome. Ebbene, sarebbe difficile considerare non italiana una celebre canzone nota in tutto il mondo, "O sole mio", scritto nel 1898 dal poeta carducciano Capurro e musicato da Di Capua:
"Quann' fa notte, 'o sole se ne scenne, me vene comm'a 'na malincunia...".
Capurro scriveva quotidianamente in italiano, eppure scrisse volontariamente “O sole mio” in napoletano: evidentemente egli non vedeva alcuna contrapposizione tra lingua e dialetto, ma li considerava semplicemente due livelli di una stessa lingua.
179 – Spesso si trovano descrizioni più obiettive e imparziali nei commenti degli stranieri che in quelli degli italiani stessi. Ecco per esempio la traduzione di una pagina web in inglese, che parla dell’italiano e dei suoi dialetti (dal sito www.orbislingua.com):
"La lingua Italiana è una di quelle
lingue di cui quasi tutti conoscono almeno una parola, per lo più riguardo alla
cucina o alla musica. Identifica istantaneamente una cultura ricca di vita e
colore. Non è forse la cucina Italiana famosa per le sue "pizzas",
"spaghetti" e "macaroni" [sic]? Non è forse l'opera Italiana famosa per i suoi tenori e soprani? E
non dovremmo dimenticare né la sublime letteratura né l'importante tradizione
cinematografica Italiana [la seconda nel mondo dopo quella Americana] che ci ha lasciato frasi ben note come "la
dolce vita" ed altre. [...] In
Italia ci sono diversi gruppi dialettali:
- l'Italiano del Nord, o Gallo-Italico;
- Il Veneto, nel Nord-Est d'Italia;
- il Toscano ed il Corso nella parte
centro-occidentale;
- il Romano e l'Umbro nell'Italia
centro-orientale;
- il gruppo del Napoletano, Lucano e
Pugliese in certe regioni nel Sud;
- ed in altre [regioni del Sud], il gruppo della Calabria, di Otranto e
della Sicilia.
In generale, tutti fanno parte di un continuo di lingue inter-comprensibili, che tuttavia possono differire notevolmente l'una dall'altra. Invece il Sardo, parlato in Sardegna, e specificatamente nel Centro e nel Sud dell'isola, è separato dal gruppo dei dialetti Italiani peninsulari. Si dirama da una parte separata delle lingue romane [neo-latine]. Ebbene, tutte queste forme dialettali sono parlate nei vari territori Italiani ma non hanno un'espressione scritta [ben definita], perciò quando occorre esprimersi in forma scritta, tutti voltano all'Italiano Standard, che domina l'intera nazione [...]. Attualmente l'Italiano è la lingua madre di quasi 66 milioni di persone, la maggior parte delle quali vivono in Italia [circa 56 milioni]. E' la lingua ufficiale in Italia, San Marino, Vaticano (insieme al Latino) ed in Svizzera (insieme al Francese e al Tedesco) dov'è parlato da mezzo milione di persone [nota: fino al 1932 era lingua ufficiale anche a Malta, insieme all'inglese; l'attuale presidente della Repubblica di Malta, in carica dal 1999, si chiama Guido de Marco]. E' parlato anche in certe zone delle Alpi e della Costa Azzurra ed in piccole comunità in Croazia e in Slovenia [cioè in Istria e Dalmazia: in alcuni Comuni è lingua ufficiale]. Fuori d'Europa, si stima che vi siano un milione e mezzo di nativi Italiani che vivono negli Stati Uniti d'America, 700.000 in Brasile e 600.000 in Argentina [molti anche in Venezuela], anche se di solito parlano forme dialettali invece dell'Italiano Standard, secondo le tradizioni di famiglia. L'uso dell'Italiano è diffuso anche in Somalia, mentre sta scomparendo in Libia e in Etiopia. [Nota: l'italiano è molto conosciuto anche in Albania. Inoltre è diffuso nelle zone d'Europa dove vi sono molti immigrati italiani (per esempio Germania e Belgio)].
180 - Attualmente (anno 2004) l'italiano è la quarta lingua più studiata nel mondo. Se si considera il numero di persone che la parlano, è solo diciannovesima: la prima è il cinese, seguita dallo spagnolo e dall'inglese (infatti la classifica cambia totalmente se si considera il numero di persone che studiano le varie lingue invece del numero di parlanti). Ovviamente la lingua più studiata al mondo è l'inglese, seguita dal francese, dallo spagnolo, dall'italiano e dal tedesco. L'italiano quindi è quarto: supera lingue come il tedesco (anche se di poco), il russo, il portoghese, il giapponese, il cinese, l'arabo. Se si considera che gli italiani non hanno fatto granché per sostenere la propria lingua, ma piuttosto hanno solo pianto sulla sua inutilità e hanno cercato di contrapporla ai dialetti in uno scontro insensato e nocivo... si tratta di un risultato eccezionale.
Dobbiamo ricordare che anche il latino (lingua antica dell'Italia e dei vari Imperi Romani, utilizzata in Europa fino al 1600-1700) è ancora largamente studiato nel mondo. La carta costituzionale dell’Inghilterra si chiama “Magna Charta Libertatum” ed il suo testo originario è in latino (viene considerata la “costituzione inglese”, sebbene non contenga nel suo testo il termine “costituzione”). Sulla banconota da un dollaro americano vi sono delle frasi in latino, compresa quella contenuta contenuto nel “Grande Sigillo” degli Stati Uniti d’America: “E pluribus unum”, che significa: “da molti, uno” (cioè dai molti Stati Americani, emerge una sola Nazione). In Germania, in Gran Bretagna, Stati Uniti d’America e in tutti i paesi anglosassoni il dottorato di ricerca (livello superiore alla laurea) si chiama Philosophiae Doctor (che in latino significa Dottore in Filosofia, intesa nel suo significato antico, molto ampio, di sapienza e conoscenza generale, comprendente quindi le varie scienze come la fisica, la chimica, la matematica, eccetera. Poco prima del 1800 i tedeschi scrivevano ancora in latino le loro tesi di laurea (si veda ad esempio la tesi di Hegel, “Le orbite dei pianeti”, il cui titolo originario è “Dissertatio de orbitis planetarum”). Termini latini si ritrovano ancora oggi in campo scientifico (per esempio nelle scienze naturali e in astronomia) ed ovviamente in campo giuridico, letterario e teologico: per la religione cristiana infatti il latino è ancora la lingua ufficiale. Il latino pertanto non è una lingua morta, sebbene negli scorsi decenni era consuetudine dire così.
Cap. 8 – Espansione degli argomenti
riassunti nel cap. 5
e piccola antologia letteraria relativa al nome Italia.
181 - Eneide, 22 a.C. circa, di Publio Virgilio Marone (Mantova 70 a.C. – Napoli 19 a.C.).
Traduzione dal latino all'italiano di Annibal Caro (Civitanova Marche 1507 - Roma 1566).
L'Italia viene nominata innumerevoli volte nel poema, fin dai primi versi del primo libro. Nel libro III l'Italia viene descritta come meta di Enea: "Una parte d'Europa... Italia è detta. Questa è la terra destinata a noi." Secondo la leggenda, i Romani discesero appunto dalla stirpe di Anchise ed Enea. Ecco un breve estratto dalla parte finale del libro terzo, quando Enea e i suoi uomini vedono la Calabria dalle loro navi ("legni"): per loro è la prima visione dell'Italia (poco dopo apparirà alla loro vista anche la Sicilia, dominata dall'Etna).
Avea l'Aurora già vermiglia e rancia
scolorite le stelle, allor che lunge
scoprimmo, e non ben chiari, i monti in
prima,
poscia i liti d'Italia. - Italia! - Acate
gridò primieramente. - Italia! Italia! - da
ciascun legno ritornando allegri
tutti la salutammo. Allora Anchise
con una inghirlandata e piena tazza
in su la poppa alteramente assiso:
"O del pelago - disse - e de la terra,
e de le tempeste numi possenti,
spirate aure seconde, e vèr l'Ausonia
de' nostri legni agevolate il corso".
182 - Naturalis Historia, scritta nel 77 d.C. da Plinio il Vecchio (Como 23 d.C. – Pompei, presso Napoli 79 d.C.). Plinio fu vittima della famosa eruzione del Vesuvio.
Nel libro III Plinio descrive l'Italia e le sue regioni. In particolare nel verso 38 afferma:
"Dalla Liguria, attraverso l'Etruria, l'Umbria, il Lazio, dove c'è Roma, capitale di tutte queste terre, e quindi la Campania, la Lucania e il Bruzzio (l'odierna Calabria), l'Italia scorre lungamente dalle Alpi verso Sud, immergendosi nei mari".
Nel verso 138 (quasi alla fine del libro) Plinio conclude:
"Questa è l'Italia sacra agli dei" ("Haec est Italia diis sacra").
183 - Dante Alighieri (Firenze 1265 – Ravenna 1321) esprime la necessità di una guida illuminata per l'Italia già nel 1294 nel "Convivio", scritta in volgare parecchi anni prima della Divina Commedia: "Lo quale cavallo come vada sanza lo cavalcatore per lo campo assai è manifesto, e spezialmente ne la misera Italia, che sanza mezzo alcuno a la sua governazione è rimasa!" (Convivio IV, IX, 10).
Dante ribadisce ed ampia questo concetto nella Divina Commedia (scritta tra il 1304 e il 1320), specialmente nel sesto Canto del Purgatorio. L'Italia per la verità è nominata molte volte fin dal primo Canto dell'Inferno (I, 106). Anche i suoi confini sono ricordati nella Divina Commedia (Inferno, IX, 114), dopo che erano stati ampiamente e chiaramente indicati nel De Vulgari Eloquentia (punto 157).
Vediamo il lamento di Dante sull'Italia nel Canto sesto del Purgatorio, che riprende (e capovolge) la storica definizione di Giustiniano (v. punto 109): “L’Italia non è una provincia ma la Signora delle province” (dal latino “Domina” = Signora o Donna).
(76) Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
...
(82) e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode
di quei ch'un muro e una fossa serra.
...
(88) Che val perché ti racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è vota?
...
(91) Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota.
...
(112) Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
«Cesare mio, perché non m'accompagne?»
L'incontenibile invettiva di Dante giunge quasi a sfiorare la bestemmia quando chiama in causa perfino Gesù (qui chiamato Giove):
(118) E se licito m'è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
...
(124) Ché le città d'Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.
L'affermazione è chiaramente sarcastica: Claudio Marcello fu un comandante ed eroe Romano, celebrato anche da Virgilio, ma nell'Italia dell'epoca diventavano capi non coloro che lo meritavano, come Marcello e Cesare nell'antica Roma, bensì quei "villani" che usavano metodi corrotti ("parteggiando"). Il sarcasmo di Dante diventa poi graffiante quando cita la sua città, Firenze:
(127) Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca.
...
(136) Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace, e tu con senno!
...
(142) ... che fai tanto sottili
provedimenti, ch'a mezzo novembre
non giugne quel che tu d'ottobre fili.
184 - Francesco Petrarca (Arezzo 1304 – Arquà, Veneto, 1374), nel sonetto
“O d'ardente vertute ornata e calda” (CXLVI del Canzoniere, anno 1340 circa), scrive:
«Il bel paese ch'Appennin parte e 'l mar circonda e l'Alpe».
Ovvero: l'Italia è il bel Paese che gli Appennini ripartiscono e che le Alpi e il mare circondano.
Inoltre Petrarca dedica un lungo canto all'Italia nella poesia CXXVIII del Canzoniere:
“Italia mia” o “All’Italia” (1343).
Italia mia, benché 'l parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel corpo tuo sí spesse veggio,
piacemi almen che' miei sospir' sian quali
spera 'l Tevero et l'Arno,
e 'l Po, dove doglioso et grave or seggio.
Rettor del cielo, io cheggio
che la pietà che Ti condusse in terra
Ti volga al Tuo dilecto almo paese.
...
Ben provide Natura al nostro stato,
quando de l'Alpi schermo
pose fra noi et la tedesca rabbia;
...
Io parlo per ver dire,
non per odio d'altrui, né per disprezzo.
...
Non è questo 'l terren ch'i' tocchai pria?
Non è questo il mio nido
ove nudrito fui sí dolcemente?
Non è questa la patria in ch'io mi fido,
madre benigna et pia,
che copre l'un et l'altro mio parente?
...
L'antiquo valore
ne l'italici cor' non è anchor morto.
...
Canzone, io t'ammonisco
che tua ragion cortesemente dica.
...
Di' lor: - Chi m'assicura?
I' vo gridando: Pace, pace, pace. –
Ecco inoltre una breve prosa di Petrarca, scritta nel 1353 guardando l’Italia dall’alto del Monginevro, nelle Alpi Cozie. In queste righe egli dimentica la triste situazione in cui si trova il “Bel Paese” e ne celebra solo la grandezza:
O nostra Italia!
Ti saluto, terra cara a Dio; o santissima terra, sicura ai buoni e tremenda ai superbi, più nobile, più fertile e più bella di tutte le regioni, cinta da due mari altera di monti famosi, onoranda a un tempo in leggi e in armi, stanza delle muse, ricca d'uomini e d'oro, ti saluto! L'arte e la natura insieme su te versarono in copia [abbondanza] i loro favori e ti fecero maestra del mondo. [...] Riconosco la patria e la saluto contento. Salve, o bella madre; o gloria del mondo, salve!
185 - Galeazzo di Tarsia (Napoli 1520 - 1553) intorno al 1540 scrisse questo sonetto:
“Già corsi l'Alpi” o “All'Italia”.
Già corsi l'Alpi gelide e canute,
Mal fida siepe a le tue rive amate;
Or sento, Italia mia, l'aure odorate,
E l'aer pien di vita e di salute.
Quante m'ha dato Amor, lasso!, ferute,
Membrando la fatal vostra beltate,
Chiuse valli, alti poggi ed ombre grate,
Da' ciechi figli tuoi mal conosciute!
Oh felice colui che un breve e colto
Terren tra voi possiede, e gode un rivo,
Un pomo, un antro e di fortuna un volto! [...]
186 - L’articolo “La patria degli italiani” fu pubblicato anonimo nel 1765 nella rivista "Il Caffé", diretta dal filosofo illuminista ed economista Pietro Verri, ma è attribuito a Gian Rinaldo Carli (Capodistria 1720 - Milano 1720). L'episodio si svolge in un caffè di Milano.
[...]
In questa bottega s'introdusse ier l'altro un Incognito; [...] e fatti i dovuti offizi di decente civiltà,
si pose a sedere chiedendo il caffè. V'era sfortunatamente vicino a lui un
giovine Alcibiade [...]. Vano,
decidente e ciarliere a tutta prova. Guarda egli con un certo sorriso di
superiorità l'Incognito; indi gli chiede s'era egli forestiere. Questi [...] con una certa aria di composta disinvoltura
risponde: "No Signore". "E' dunque Milanese?" riprese
quegli. "No Signore, non sono Milanese", soggiunse questi. A tale
risposta atto di maraviglia fa l'interrogante; e ben con ragione, perché tutti
noi colpiti fummo dall'introduzione di questo dialogo [...].
"Sono Italiano", risponde
l'Incognito, "e un Italiano in Italia non è mai forestiere come un
Francese non è forestiere in Francia, un Inglese in Inghilterra, un Olandese in
Olanda, e così discorrendo". Si sforzò in vano il Milanese di addurre in
suo favore l'universale costume d'Italia di chiamare col nome di forestiere chi
non è nato e non vive dentro il recinto d'una muraglia; perché l'Incognito
interrompendolo con franchezza soggiunse: "Fra i pregiudizi dell'opinione
v'è in Italia anche questo; [...] che
gli rende inospitali e inimici di lor medesimi, e d'onde per conseguenza ne
derivano l'arenamento delle arti, e delle scienze, e impedimenti fortissimi
alla gloria nazionale, la quale mal si dilata quando in tante fazioni, o scismi
viene divisa la nazione [...]. Da
questa rivalità, che dai Guelfi e Ghibellini sino a noi fatalmente discese, ne
viene la disunione, e dalla disunione il reciproco disprezzo. Chi è
quell'Italiano, che abbia coraggio di apertamente lodare una manifattura, un
ritrovato, una scoperta, un libro d'Italia, senza il timore di sentirsi
tacciato di cieca parzialità, e di gusto depravato e guasto?".
A tale interrogazione un altro caffettante,
a cui fe' eco Alcibiade, esclamò che la natura degli uomini era tale di non
tenere mai in gran pregio le cose proprie. "Se tale è la natura degli
uomini" riprese l'Incognito, "noi altri Italiani siamo il doppio
almeno più uomini degli altri, perché nessun oltremontano ha per la propria
nazione l'indifferenza che noi abbiamo per la nostra" [...].
Io risposi: "Appare Newton
nell'Inghilterra, e lui vivente l'isola è popolata da' suoi discepoli, da'
astronomi, da' ottici, e da' calcolatori, e la nazione difende la gloria del
suo immortale maestro contro gli emoli suoi. Nasce nella Francia Des Cartes
[Cartesio] e dopo sua morte i Francesi
pongono in opera ogni sforzo per sostenere le ingegnose e crollanti sue
dottrine. Il Cielo fa dono all'Italia del suo Galileo, e Galileo ha ricevuti
più elogi forse dagli estranei a quest'ora, che dagli Italiani".
Fattasi allora comune, in cinque ch'eravamo al caffè, la conversazione, e riconosciuto l'Incognito per uomo colto, di buon senso, e buon patriota, da tutti in vari modi si declamò contro la infelicità a cui da un pregiudizio troppo irragionevole siam condannati di credere che un Italiano non sia concittadino degli altri Italiani, e che l'esser nato in uno piuttosto che in altro di quello spazio "che Appennin parte, il Mar circonda e l'Alpe" [Petrarca, punto 184] confluisca più o meno all'essenza, o alla condizione della persona. Fu allora che rallegratosi un poco l'Incognito cominciò a ragionare in tal guisa: "Dacché convinti i Romani [...] si determinarono per la salvezza della repubblica ad interessare tutta Italia nella loro conservazione, passo passo tutti gl'Italiani ammisero all'amministrazione della repubblica: dal Varo all'Arsa [v. punto 99] tutti i popoli divennero in un momento Romani. "Ora tutti sono Romani", parlando degli Italiani, dice Strabone [v. punto 100]. Tutti adunque partecipi degli onori di Roma [...]. Se le nazioni dovessero gareggiar fra di esse per la nobiltà, noi Italiani certamente non la cediamo a nessun'altra nazione d'Europa; [...] l'Italia “rerum domina” si chiamava, come prima dicevasi la sola Roma" [“rerum domina” = Signora di tutte cose, v. punti 100 e 109].
"In cotesti tempi crediamo noi che
[...] un Italiano fosse forestiero in Italia? No certamente; se persino la
suprema di tutte le dignità, cioè il consolato, comune sino agli ultimi confini
d'Italia si rese. Siamo stati dunque tutti simili in origine; che origine di
nazione io chiamo quel momento in cui l'interesse e l'onore la unisce e lega in
un corpo solo e in un solo sistema. Vennero i barbari, approfittando della
nostra debolezza, ad imporci il giogo di servitù, non rimanendo se non che in
Roma un geroglifico della pubblica libertà nella esistenza del Senato romano.
Sotto a' Goti pertanto siamo tutti caduti nelle medesime circostanze e alla
medesima condizione ridotti. Le guerre insorte fra Goti e Greci [i “Greci”
sarebbero i Bizantini, v. punto 108], la
totale sconfitta di quelli e la sopravenienza` de' Longobardi han fatto che
l'Italia in due porzioni rimanesse divisa. La Romagna, il Regno di Napoli e
l'Istria sotto i Greci; e tutto il rimanente sotto de' Longobardi [v. punti
110 e 111]. Una tal divisione non alterò
la condizione degl'Italiani, se non in quanto che quelli, che sotto a Greci
eran rimasti, seguirono a partecipare degli onori dell'Impero trasferito in
Costantinopoli, memorie certe ne' documenti essendosi conservate di Romagna,
d'Istria e di Napoli [...]. Ma
rinnovato l'Impero in Carlo Magno, eccoci di nuovo riuniti tutti in un sistema
uniforme. Questo fu lo stato d'Italia per lo spazio di undici secoli [v.
punto 112; evidentemente intende dal I secolo a.C. fino all'anno 1000 d.C.
circa]; e questo non basta a persuader
gl'Italiani d'esser tutti simili fra di loro, e d'esser tutti Italiani"
[...].
Ora ciò posto, qual differenza ritrovar si
può mai fra Italiano e Italiano, se uguale è l'origine, se uguale il genio, se
ugualissima la condizione? E se non v'è differenza, per qual ragione in Italia
tale indolenza, per non dire alienazione, regnar deve fra noi da vilipenderci
scambievolmente, e di credere straniero il bene della nazione? [...] Non per questo si dirà mai che un Italiano
sia qualche cosa di più o di meno d'un Italiano, se non da quelli a' quali
manca la facoltà di penetrare al di là del confine delle apparenze e che
pregiano una pancia dorata e inargentata più che un capo ripieno di buoni sensi
ed utilmente ragionatore. Alziamoci pertanto un poco e risvegliamoci alla fine
per nostro bene”.
“Il Creatore del tutto nel sistema
planetario pare che ci abbia voluto dare un'idea del sistema politico. Nel
fuoco dell'elissi sta il Sole. Pianeti, o globi opachi, che ricevono il lume da
lui, vi si aggirano intorno [...].
Alcuni di questi globi intorno di sé hanno de' globi più piccoli, che con le
medesime leggi si muovono [i satelliti]. Alcuni altri sono soli e isolati. Trasportiamo questo sistema alla
nostra nazionale politica. Grandi, o picciole sieno le città, sieno esse in
uno, o in altro spazio situate, abbiano esse particolari leggi nelle
rivoluzioni sopra i propri assi, siano fedeli al loro natural sovrano ed alle
leggi, abbiano più o meno di corpi subalterni: ma benché divise in domìni
diversi, e ubbidienti a diversi sovrani, formino una volta per i progressi
delle scienze e delle arti un solo sistema; e l'amore di patriotismo, vale a
dire del bene universale della nostra nazione, sia il Sole che le illumini e
che le attragga. Amiamo il bene dovunque si ritrovi; promoviamolo ed animiamolo
ovunque rimane sopito o languente; e lungi dal guardare con l'occhio
dell'orgoglio e del disprezzo chiunque che per mezzo delle arti, o delle
scienze tenta di rischiarare le tenebre [...], sia nostro principale proposito d'incoraggiarlo e premiarlo.
Divenghiamo pertanto tutti di nuovo Italiani, per non cessar d'esser
uomini" .
Detto questo s'alzò improvvisamente l'Incognito, ci salutò graziosamente e partì, lasciando in tutti un ardente desiderio di trattare più a lungo con lui e di godere della verità dei di lui sentimenti.
187 - Johann Wolfgang von Goethe (Francoforte 1749 - Weimar 1832) nel 1788 scrive "Viaggio in Italia". Durante il secondo viaggio egli scrisse (ovviamente in tedesco) la seguente poesia, diventata celebre come espressione della nostalgia ("Sehnsucht") di molti artisti verso l'Italia:
Conosci tu il paese dove fioriscono i
limoni?
Nel verde fogliame splendono arance d'oro
Un vento lieve spira dal cielo azzurro
Tranquillo è il mirto, sereno l'alloro
Lo conosci tu bene?
Goethe però fu anche colpito negativamente dal disordine e dallo scarso senso civico che trovò in Italia (ormai nel pieno della sua decadenza, dopo il Rinascimento, e ben prima del Risorgimento), cosicché durante il suo secondo viaggio in Italia scrisse:
L'Italia è ancora come la lasciai, ancora
polvere sulle strade,
ancora truffe al forestiero, si presenti
come vuole.
Onestà tedesca ovunque cercherai invano,
c'è vita e animazione qui, ma non ordine e
disciplina;
ognuno pensa per sé, è vano, dell'altro
diffida,
e i capi dello stato, pure loro, pensano solo per sé.
Questo contribuirà alla nascita e alla crescita di vari pregiudizi sull'Italia e sugli italiani (non tutti infondati, dobbiamo ammettere), quelli che un secolo più tardi De Amicis rifiuterà nel libro Cuore nel suo racconto sul “patriota padovano” (v. punto 199).
188 - L'Italia a partire dal 17° secolo dava di sé un'idea paradossale: a fianco della sua immagine classica di civiltà e faro mondiale di arte e cultura, si formava un'immagine esattamente contraria, di decadenza, povertà, abbandono, incuria, scarso senso civico e perfino di corruzione e delinquenza. Questo fu detto non solo da Goethe, ma anche da Samuel Sharp (“Letters from Italy”, 1765), da Pierre-Jean Grosley (“Nouveaux mémoires ou observations sur l'Italie et les Italiens », 1764) e riconosciuto anche da autori italiani: Carlo Goldoni nella commedia “La vedova scaltra” (1748) confronta ironicamente il comportamento di un italiano, un francese, un inglese e uno spagnolo, anticipando così le ben note barzellette attuali. Alessandro Verri scriveva al fratello Pietro nel 1768, parlando così del loro comune amico Alfonso Longo: "Non è cattivo, ma è italiano". Sempre nel 1768 Giuseppe Baretti scriveva in inglese il saggio: “An Account of the manners and customs of Italy”.
189 - Un ritratto obiettivo e lucidissimo della situazione dell'Italia all'inizi dell'800 fu compilato da Giacomo Leopardi nel suo saggio "Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani" (1824) di cui riportiamo un brevissimo stralcio, che si ricollega col punto 188:
"L'Italia è, quanto alle opinioni, a livello cogli altri popoli, eccetto una maggior confusione nelle idee, ed una minor diffusione di cognizioni nelle classi popolari".
Di Leopardi parleremo ampiamente più avanti (punti 192 e 193).
190 - Stendhal, pseudonimo di Henry Beyle, scrittore francese (Grenoble 1783 - Parigi 1842), nel 1800 giunge a Milano (a soli 17 anni) al seguito delle armate napoleoniche e si innamora di Milano prima (dove poi si stabilì per 7 anni, dal 1814 al 1821) e poi di tutta l'Italia. Già prima di giungere in Italia era innamorato delle musiche di Domenico Cimarosa e di Gioacchino Rossini. Tra le sue opere ricordiamo:
- La storia della pittura in Italia (1817)
- Roma, Napoli e Firenze (1817)
- I briganti in Italia (1827)
- Piccola guida per il viaggio in Italia (1828)
- Passeggiate Romane (1829)
- La Certosa di Parma (1839).
Ovviamente, essendo francese, egli scriveva nella sua lingua, ma sulla sua tomba (a Parigi) vi è scritto: "Henry Beyle milanese". Oggi si usa dire "Sindrome di Stendhal" per definire lo sconvolgimento provocato al turista dall'eccessiva bellezza dei luoghi visitati e delle opere d'arte ammirate, effetto provocatogli dalle sue visite in diverse città d'Italia. In particolare, secondo il racconto dello stesso autore, Stendhal fu colto da malore nella Chiesa di Santa Croce da Firenze, rischiando il ricovero.
191 - Vincenzo Monti (Alfonsine, Ravenna, 1754 – Milano 1828) nel 1801 scrive la poesia:
“Per la liberazione d'Italia”.
Bella Italia, amate sponde
pur vi torno a riveder!
Trema in petto e si confonde
l'alma oppressa dal piacer.
[...]
Il giardino di natura,
no, pei barbari non è.
Bonaparte al tuo periglio
dal mar libico volò;
vide il pianto del tuo ciglio,
e il suo fulmine impugnò.
[...]
Ve' sull'Alpi doloroso
della patria il santo amor,
alle membra dar riposo
che fur velo al tuo gran cor.
192 – Il grande poeta Giacomo Leopardi (Recanati, Marche, 1798 – Napoli 1837) scrisse varie opere sull'Italia e sugli italiani. Abbiamo già riportato un passo sopra (punto 9). Ora vediamo altri suoi scritti. Uno poco conosciuto è “Orazione agli Italiani” del 1815. Altri sono i seguenti:
“Prime confessioni” (dall'Epistolario).
Recanati, 21 Marzo 1817.
[...] Mia patria è l'Italia; per la quale ardo d'amore, ringraziando il cielo d'avermi fatto Italiano, perché alla fine la nostra letteratura, sia pure poco coltivata, è la sola figlia legittima delle due sole vere tra le antiche [si riferisce alla letteratura greca e latina].
“Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica” (1818).
[...] Essendomi sforzato sin qui di costringere i moti dell'animo mio, non posso più reprimerli, né tenermi ch'io non mi rivolga a voi, Giovani Italiani, e vi preghi per la vita e le speranze vostre che vi moviate a compassione di questa nostra patria, la quale caduta in tanta calamità quanta appena si legge di verun'altra nazione del mondo, non può sperare né, vuole invocare aiuto nessuno altro che il vostro. Io muoio di vergogna e dolore e indignazione pensando ch'ella sventuratissima non ottiene dai presenti una goccia di sudore. [...] Soccorrete, o Giovani Italiani, alla patria vostra, date mano a questa afflitta e giacente, che ha sciagure molto più che non bisogna per muovere a pietà, non che i figli, i nemici. Fu padrona del mondo, e formidabile in terra e in mare, e giudice dei popoli, e arbitra delle guerre e delle paci, magnifica, ricca lodata, riverita, adorata [...]. Tutto è caduto: inferma, spossata, combattuta, pesta, lacera e alla fine vinta e doma la patria nostra, perduta la signoria del mondo e la signoria di se stessa, [...] non serba altro che l'imperio delle lettere e arti belle, per le quali come fu grande nella prosperità, non altrimenti è grande e regina nella miseria. [...] Io vi prego e supplico, o Giovani Italiani, io m'atterro dinanzi a voi; per la memoria e la fama unica ed eterna del passato, e la vista lagrimevole del presente, impedite questo acerbo fatto, sostenete l'ultima gloria della nostra infelicissima patria. [...]
193 - Riportiamo anche dei passaggi da due famose poesie di Giacomo Leopardi:
“All’Italia” (1818).
O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l'erme
Torri degli avi nostri,
Ma la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
I nostri padri antichi.
...
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
Che di catene ha carche ambe le braccia;
Sì che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.
Piangi, che ben hai donde, Italia mia.
...
Come cadesti o quando
Da tanta altezza in così basso loco?
Nessun pugna per te? non ti difende
Nessun de' tuoi? L'armi, qua l'armi: io solo
Combatterò, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
Agl'italici petti il sangue mio.
“Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze” (1818).
...
O Italia, a cor ti stia
Far ai passati onor; che d'altrettali
Oggi vedove son le tue contrade,
Né v'è chi d'onorar ti si convegna.
Volgiti indietro, e guarda, o patria mia,
Quella schiera infinita d'immortali,
E piangi e di te stessa ti disdegna;
...
Qualunque petto amor d'Italia accende.
Amor d'Italia, o cari,
Amor di questa misera vi sproni.
...
O glorioso spirto,
Dimmi: d'Italia tua morto è l'amore?
Di': quella fiamma che t'accese, è spenta?
194 – Alessandro Manzoni (Milano 1785 - 1873), nel 1821 scrisse l’ode “Marzo 1821”.
...
Non fia loco ove sorgan barriere
Tra l'Italia e l'Italia, mai più!
...
Una gente che libera tutta
O fia serva tra l'Alpe ed il mare;
Una d'arme, di lingua, d'altare,
Di memorie, di sangue e di cor.
...
O stranieri, nel proprio retaggio
Torna Italia e il suo suolo riprende;
O stranieri, strappate le tende
Da una terra che madre non v'è.
Non vedete che tutta si scote,
Dal Cenisio alla balza di Scilla?
...
Chi v'ha detto che sterile, eterno
Saria il lutto dell'itale genti?
Chi v'ha detto che ai nostri lamenti
Saria sordo quel Dio che v'udì?
...
195 - L’Inno di Mameli, o "Fratelli d'Italia", o "Il Canto degli Italiani", fu scritto nel 1847 dal patriota Goffredo Mameli (Genova 1827 - Roma 1849), scomparso a soli 22 anni. L'inno fu musicato da Michele Novaro, anch'egli genovese. Già nel 1862 il grande musicista Giuseppe Verdi lo indicò come inno nazionale, ma lo diventò solo nel 1946. Per un breve periodo nel 1946 l’inno nazionale fu "La leggenda del Piave" (noto anche come "Il 24 Maggio", "La Canzone del Piave" o "Il Piave mormorava"), di Giovanni Gaeta, noto con lo pseudonimo E.A. Mario. Dal 1861 al 1946 l'inno nazionale fu la "Marcia Reale", il cui testo nominava l'Italia pur essendo stato scritto già nel 1847 per il Re Piemontese.
Alcune curiosità: l'inno di Mameli è tuttora inno provvisorio della Repubblica italiana!
La versione originale non iniziava con "Fratelli d'Italia" bensì con "Evviva l'Italia".
Fratelli d'Italia, l'Italia s'è desta;
Dell'elmo di Scipio s'è cinta la testa.
Dov'è la Vittoria? Le porga la chioma;
Ché schiava di Roma Iddio la creò.
Stringiamci a coorte! Siam pronti alla morte; Italia chiamò.
Noi siamo da secoli calpesti, derisi,
Perché non siam popolo, perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica bandiera, una speme;
Di fonderci insieme già l'ora suonò.
Stringiamci a coorte! Siam pronti alla morte; Italia chiamò.
Uniamoci, amiamoci; l'unione e l'amore
Rivelano ai popoli le vie del Signore.
Giuriamo far libero il suolo natio:
Uniti, per Dio, chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte! Siam pronti alla morte; Italia chiamò.
Dall'Alpe a Sicilia, dovunque è Legnano [v. punto 118];
Ogn'uom di Ferruccio ha il core e la mano [v. punti 58 e 135];
I bimbi d'Italia si chiaman Balilla [v. punto 135];
Il suon d'ogni squilla i vespri suonò [v. punto 135].
...
196 - Giuseppe Mazzini (Genova 1805 – Pisa 1872) nel 1859 scrisse "La Patria" (da "I Pensieri")
La patria è la vostra vita collettiva,
[...] che, quando errate su terre al di
là dell'Oceano, v'annuvola l'occhio di lagrime se v'abbattete subitamente in
una lapide sulla quale sia scritto un nome Italiano. La patria è prima d'ogni
altra cosa la coscienza della patria. Però che il terreno sul quale movono i
vostri passi e i confini che la natura pose fra la vostra e le terre altrui e
la dolce favella che vi suona per entro, non sono che la forma visibile della
patria; ma se l'anima della patria non palpita in quel santuario della vostra
vita che ha nome coscienza, quella forma rimane simile a cadavere senza moto ed
alito di creazione, e voi siete turba senza nome, non nazione, gente, non
popolo...
La patria è la fede nella patria. Dio che creandola sorrise sovr'essa, le assegnò per confine le due più sublimi cose ch'ei ponesse in Europa, simboli dell'eterna forza e dell'eterno moto, l'Alpi e il mare. Dalla cerchia immensa dell'Alpi, simile alla colonna di vertebre che costituisce l'unità della forma umana, scende una catena mirabile di continue giogaie che si stende sin dove il mare la bagna e più oltre nella divelta Sicilia. E il mare la ricinge quasi d'abbraccio amoroso ovunque l'Alpi non la ricingono: quel mare che i padri dei padri chiamarono Mare Nostro. E come gemme cadute dal suo diadema stanno disseminate intorno ad essa in quel mare Corsica, Sardegna, Sicilia, ed altre minori isole dove natura di suolo e ossatura di monti e lingua e palpito d'anime parlan d'Italia.
197 - Ippolito Nievo (Padova 1831 – Palermo 1861), autore del celebre romanzo "Confessioni di un Italiano", fu patriota e combattente ma morì in un banale naufragio di una nave di linea partita da Palermo per Napoli. Leggiamo una sua poesia ironica che sorprende per la sua modernità e attualità, sebbene sia stata scritta nel 1858, tre anni prima dell'Unità d'Italia. Ad esempio il "Corso dei fondi" era equivalente agli attuali quotidiani "Il Sole 24 ore" o "Wall Street Journal" e riportava l'andamento dei mercati azionari e delle merci.
“Il turista a Venezia” (da "Le Lucciole", 1858).
Vien duro da Marsiglia
colla sua guida in tasca
ed in Piazzetta casca
illustre oltramontan.
Fiuta San Marco, sbircia
la scala dei giganti,
compra un paio di guanti,
si sdraia da Florian.
Carezza un po' la morbida
"Rivista de' due Mondi",
guarda il "Corso dei fondi",
paga il cigarro e il thè. [...]
198 - Il libro “Cuore”, scritto nel 1886 da Edmondo De Amicis (Oneglia, Liguria 1846 – Bordighera 1908) riscosse un successo enorme e fu per decenni un testo fondamentale per la formazione dei bambini, al pari di Pinocchio, rispetto al quale veniva considerato più maturo ed impegnato, almeno fino agli anni '50. Dagli anni '60 la situazione si è capovolta ed il libro è stato sottoposto a critiche e derisioni.
“Bella Italia, grande e gloriosa da molti secoli; unita e libera da pochi anni; che spargesti tanta luce d'intelletti divini sul mondo [...]. Amo i tuoi mari splendidi e le tue Alpi sublimi, amo i tuoi monumenti solenni e le tue memorie immortali; amo la tua gloria e la tua bellezza; t'amo e ti venero tutta come quella parte diletta di te, dove per la prima volta vidi il sole e intesi il tuo nome. V'amo tutte di un solo affetto e con pari gratitudine, Torino valorosa, Genova superba, dotta Bologna, Venezia incantevole, Milano possente; v'amo con egual reverenza di figlio, Firenze gentile e Palermo terribile. Napoli immensa e bella, Roma meravigliosa ed eterna”.
Nota: perché Palermo è definita "terribile"? Probabilmente per il furore dimostrato durante il Risorgimento e forse anche per l'episodio dei Vespri Siciliani, che risale al 1282 (v. punto 135), quando la rivolta iniziata a Palermo portò a cacciare gli invasori francesi dall'isola. I Vespri Siciliani sono ricordati nell'inno di Mameli (v. punto 195) e ad essi è dedicata un’opera di Giuseppe Verdi (1855, in pieno Risorgimento). Li ricorda anche un film del 1986. Una curiosità: per riconoscere i francesi, i siciliani mostravano loro dei ceci ("ciciri") e chiedevano che cosa fossero. La pronuncia dei francesi era totalmente diversa da quella dei siciliani: ad esempio non sapevano pronunciare la "c" dolce e dicevano "sesì" o "sisirì" (ovviamente con la erre francese).
199 - Un altro estratto dal libro Cuore di De Amicis.
“L'amor di Patria”.
“[...] Lo sentirai quando sarai un uomo, quando ritornando da un viaggio
lungo, dopo una lunga assenza, e affacciandoti una mattina al parapetto del
bastimento, vedrai all'orizzonte le grandi montagne azzurre del tuo paese; lo
sentirai allora nell'onda impetuosa di tenerezza che t'empirà gli occhi di lagrime
e ti strapperà un grido dal cuore. Lo sentirai in qualche grande città lontana,
nell'impulso dell'anima che ti spingerà fra la folla sconosciuta verso un
operaio sconosciuto, dal quale avrai inteso, passandogli accanto, una parola
della tua lingua. Lo sentirai nello sdegno doloroso e superbo che ti getterà il
sangue alla fronte, quando udrai ingiuriare il tuo paese dalla bocca d'uno
straniero [...]”.
Quest'ultimo concetto si ricollega a quello espresso in uno dei "racconti mensili" del libro Cuore: "Il piccolo patriotta padovano", bambino poverissimo che rifiuta del denaro da alcuni stranieri che avevano parlato male dell'Italia [v. punti 187 e 188]. Altri famosi racconti patriottici sono "La piccola vedetta lombarda" e "Il tamburino sardo".
200 - Il “Volo su Vienna”.
Nel presente libretto si è voluto parlare poco del Risorgimento. Per compensazione, mi sia consentito dare un certo rilievo ad un atto di incredibile audacia compiuto dal poeta Gabriele d'Annunzio (Pescara 1863 - Gardone, Brescia 1938), e da altri 7 aviatori nel corso della Prima Guerra Mondiale. Il 9 Agosto 1918, mentre la guerra era in pieno svolgimento, gli 8 italiani sorvolarono l'Austria, sfidando il fuoco nemico, per lanciare su Vienna semplicemente 400.000 manifestini! La maggior parte di essi (350.000) riportava la bandiera italiana con il seguente testo, tradotto in tedesco:
"Viennesi! Imparate a conoscere gli Italiani. Noi voliamo su Vienna, potremmo lanciare bombe a tonnellate. Non vi lanciamo che un saluto a tre colori: i tre colori della libertà. Noi non facciamo la guerra ai bambini, ai vecchi, alle donne. Noi facciamo la guerra al vostro governo nemico delle libertà nazionali, al vostro cieco testardo crudele governo che non sa darvi né pace né pane, e vi nutre d'odio e d'illusioni".
Il messaggio prosegue con alcuni dettagli sulla situazione politica dell'epoca, che sarebbe difficile capire oggi. Questo testo, di cui furono stampate anche alcune copie in italiano, era di Ugo Ojetti e fu preferito ad un altro scritto da D'Annunzio, giudicato troppo difficile, di cui comunque furono sganciate circa 50mila copie, in italiano. Riportiamo alcuni passaggi di questo volantino:
"In questo mattino d'agosto [...] l'ala tricolore vi apparisce
all'improvviso, come l'indizio del destino che si volge. [...] Il destino si volge verso di noi con una
certezza di ferro [...]. La vostra
ora è passata. Come la nostra fede fu la più forte, ecco che la nostra volontà
predomina [...]. Non siamo venuti se
non per la gioia dell'arditezza, non siamo venuti se non per la prova di quel
che potremo osare e fare quando vorremo nell'ora che sceglieremo [...].
Viva l'Italia! Gabriele D’Annunzio”.
A questa impresa fu dato ampio rilievo dai giornali di tutto il mondo. Ecco i nomi degli altri 7 aviatori: Natale Palli, Antonio Locatelli, Piero Massoni, Aldo Finzi, Ludovico Censi, Giordano Granzarolo, Gino Allegri. Partirono anche altri 4 velivoli: quello di Giuseppe Sarti fu costretto ad atterrare in territorio nemico. Quelli di Ferrarin, Masprone e Contratti dovettero atterrare subito. Altre grandi imprese di D'Annunzio furono la "Beffa di Buccari" e la "Presa di Fiume".
Cap. 9 – Conclusioni.
Oggi la maggior parte degli italiani non ha coscienza della propria identità nazionale. Forse questa raccolta di notizie storiche può contribuire alla ricostruzione di tale consapevolezza e del senso di appartenenza ad una nazione che, nel bene e nel male, ha oltre due millenni di storia ed ha avuto un ruolo di importanza fondamentale nella storia del mondo.
Ovviamente questo non significa che in Italia vi siano state solo cose belle: i difetti e gli aspetti negativi dell’Italia e degli italiani sono stati esposti con chiarezza. E’ inutile negare che oggi esistono nazioni più civili dell'Italia: più civili perché (ad esempio) i loro abitanti hanno più rispetto per il prossimo, hanno fiducia nelle loro istituzioni e non buttano immondizia o carte per terra mentre camminano per strada (quest’ultimo può sembrare un punto banale e insignificante e banale ma in realtà è rivela il senso civico delle persone).
Detto questo, non vedo perché oggi si debba negare o dimenticare che l'Italia è una delle nazioni con maggiore personalità al mondo e possiede caratteristiche specifiche (alcune nel bene, altre nel male) che la distinguono dalle altre.
Oggi molti dicono che l'Italia è una nazione “falsa”, “forzata”, "inventata nel 1861”. Eppure il gran numero di fatti storici che abbiamo riportato dimostra che l'Italia viene nominata e riconosciuta da almeno 25 secoli e che può essere considerata una nazione da 21 o 22 secoli (cioè dal I o dal II secolo a.C.), per cui è una delle pochissime nazioni al mondo che affonda le sue radici nell'antichità (invece che nel Medio Evo).
Alcuni però rifiutano quest’ultima osservazione ed affermano che il concetto di nazione non esisteva ancora nell’antichità e nemmeno nel Medio Evo ma è nato intorno al 1800-1850. Ma se questo fosse vero... l’accusa all’Italia di non essere stata una nazione prima del Risorgimento decadrebbe automaticamente, poiché il concetto stesso di nazione non esisteva!
In realtà la parola “nazione” veniva già usata ben prima del 1800: si riveda la lettera scritta nel 1592 da Campanella a Galileo (punto 20); Vico nel 1725 scrisse "Principi d'una scienza nuova dintorno alla natura delle nazioni"; Carli nel 1765 parlava di "gloria nazionale" (punto 186). Fuori d'Italia, nel 1776 l’economista Adam Smith scriveva "La ricchezza delle nazioni" ("The wealth of nations”) ed il filosofo Johann Gottlieb Fichte nel 1807 pronunziò i suoi "Discorsi alla nazione tedesca" (ben prima che questa si unisse politicamente, v. punto 148).
Oggi si sente anche dire che la lingua italiana ha iniziato a diffondersi solo nel 1954, grazie alla televisione! Prima del 1954 l’italiano era prevalentemente una lingua scritta e solo da allora è diventata una lingua parlata. Ma queste sono affermazioni superficiali che si basano su un equivoco evidente: l’analfabetismo e l’ignoranza erano molto diffusi e perciò mancava una diffusione capillare della lingua italiana anche a livello delle classi popolari (che comunque parlavano lingue locali affini all’italiano, cioè i dialetti).
Questo è un problema sociale che è sempre stato riconosciuto (per esempio da Leopardi, punto 189). Ma dire che la lingua italiana non veniva parlata prima del 1954 è del tutto ingiustificato e risulta una sciocchezza. Se corrispondesse a verità, allora i discorsi di Mussolini degli anni '20 e '30 in che lingua erano? In norvegese?! E i film degli anni '30? In giapponese? E se erano in italiano e nessuno lo conosceva, perché la gente andava al cinema?
Talvolta mi è capitato di sentire delle registrazioni storiche dell'inizio del secolo scorso: per esempio un breve discorso del musicista Puccini a New York nel 1907, e un altro del generale Cadorna nel 1917, durante la Prima Guerra Mondiale. Ebbene... parlavano chiaramente italiano e la gente li stava pure ad ascoltare.
Vediamo allora qual è la verità documentata. L'italiano standard rimase una lingua prevalentemente scritta dal 1300 fin oltre il 1500: la comunicazione orale avveniva quasi sempre in dialetto, oppure in latino, che veniva usato in ambito culturale e scientifico. Nel 1500 l'italiano si afferma decisamente e inizia a sostituire il latino anche a livello accademico: ad esempio Giordano Bruno scrisse già diverse opere in italiano, oltre che in latino (v. punto 49). Intorno al 1600 Galileo scrisse in italiano le opere che fondarono la scienza moderna. Nel 1700 l'italiano era parlato in quasi tutte le famiglie nobili e borghesi della penisola. Nel 1861, all’unità d’Italia, gli analfabeti costituivano il 78% della popolazione, quindi il restante 22% sapeva leggere e scrivere, da cui si deduce che questo 22% conosceva e usava la lingua italiana. Nel ventesimo secolo la scuola pubblica ha contribuito all’alfabetizzazione di tutti gli italiani, cosicché la percentuale di analfabeti si è ridotta fino a livelli trascurabili. Ovviamente la radio e la televisione hanno contribuito molto alla diffusione dell'italiano standard tra le classi popolari, ma questo non toglie che la lingua italiana esisteva e veniva parlata già da secoli.
Obiezione: In realtà la lingua italiana era conosciuta e usata solo da una ristretta elite di intellettuali: infatti il 78% della popolazione che nel 1861 non conosceva l’italiano costituiva una maggioranza schiacciante! Questo significa che milioni di persone di regioni diverse si esprimevano in dialetti diversi. Solo il 22% della popolazione era alfabetizzato, cioè sapeva leggere e scrivere, ed ovviamente questo 22% comprendeva anche persone di cultura limitata e con scarsa padronanza della lingua italiana. Perciò il concetto di “italianità” poteva essere valido forse per il 10% della popolazione, cioè per una piccola minoranza.
Risposta: Non capisco quale sia lo scopo dell’obiezione e mi sembra che stiamo dicendo la stessa cosa. L'analfabetismo e l'ignoranza in Italia erano molto diffusi, e con questo? L'esistenza di tali problemi era ben nota e riconosciuta, ma non vedo come questo possa alterare o negare l'esistenza della nazionalità italiana, che era sentita da secoli dalle classi che avevano la fortuna di avere una certa cultura e di vivere ad un livello più ampio di quello municipale o regionale.
In parole povere, chi era colto era sicuramente italiano. E quelli che erano analfabeti o ignoranti? Erano come persone dentro una stanza buia: non potevano sapere nemmeno se si trovavano dentro una stanza o una caverna o che cosa, e tantomeno conoscerne i confini. Ma coloro che potevano accendere un fiammifero e fare un po’ di luce, riconoscevano che la stanza era l’Italia e vedevano chiaramente i suoi confini (i Mille di Garibaldi erano tutti di livello sociale medio-alto e per questo erano colti e consapevoli di che cosa fosse l’Italia).
Non si può dire però che le persone ignoranti fossero di un'altra nazionalità: al limite possiamo dire che non avevano alcuna nazionalità, poiché erano costrette a vivere a livelli socio-economici e culturali così bassi e limitanti da trovarsi al di sotto di questo concetto (e anche del concetto di lingua, intesa come idioma scritto di una certa ricchezza e completezza). Purtroppo è vero che l’ignoranza affliggeva le classi popolari e le ostacolava a tutti i livelli, ma mi sembra una considerazione fuori tema, poiché non riguarda la questione della nazionalità bensì un problema di natura sociale. Forse il rimanere sotto gli Austriaci o i Borboni lo avrebbe risolto?
Nei capitoli precedenti avevamo ammesso ed esposto con chiarezza diversi problemi e difetti dell’Italia preunitaria: dalla politica corrotta già denunciata da Dante (punto 183) all'ignoranza delle classi popolari evidenziata da Leopardi (189); dallo stato di abbandono e di povertà generalizzata (133) allo scarso senso civico (187 e 188); dalla scarsa autostima e reciproca diffidenza degli italiani (186) al profondo problema del brigantaggio (138). Non a caso Leopardi chiedeva all’Italia: "Come cadesti o quando... in così basso loco?" (193). Perfino l'inno di Mameli ammette: "Calpesti, derisi... perché siam divisi" (195). Ma questo non cambia i termini della questione. Anzi, l’ignoranza diffusa può perfino spiegare il fallimento di alcune infelici azioni risorgimentali che non trovarono l'appoggio popolare, come la spedizione di Pisacane a Sapri o la scarsa attenzione dei romagnoli al proclama di Murat (v. punti 140-142). Questi avvenimenti devono essere considerati per il loro effettivo valore e non sopravvalutati. Si tratta di episodi che nel quadro generale sono fisiologicamente inevitabili.
Tuttavia alcune persone, anche dopo le suddette precisazioni, continuano ugualmente a ripetere il solito concetto: le vere “nazionalità” sono quelle regionali, punto e basta. In parole povere, i nostri avi non erano italiani, ma erano semplicemente milanesi, romani, napoletani, veneti, siciliani, eccetera. Ebbene, voglio dare due ultime risposte:
1) Ammettiamo che i nostri avi fossero milanesi o romani o napoletani (invece che italiani). Ebbene, questo non cambia e non risolve il loro problema di fondo, e cioè che erano analfabeti! Per giunta il dialetto milanese o napoletano non avevano una forma compiuta ed univoca, per cui queste “nazionalità regionali” potevano solo contribuire all’analfabetismo, piuttosto che eliminarlo. Non vedo quindi l’utilità e il senso di questi riferimenti alle “nazionalità regionali”.
2) Dobbiamo ricordare che il 78% non è il 100%: perciò vi erano anche persone fortunate, dotate di cultura, che l’italiano lo conoscevano. Il fatto che questi fortunati fossero pochi, cioè il 22% o anche solo il 10%, non cambia nulla, visto che gli altri non conoscevano alcuna lingua. I pochi colti comunque erano pur sempre concittadini della maggioranza analfabeta e pertanto fungevano da elementi “leganti” che in qualche modo unificava l’intera popolazione italiana. Facciamo un esempio concreto: prendiamo ad esempio un Manzoni a Milano o un Puoti a Napoli. Senza dubbio Manzoni era concittadino di tanti milanesi analfabeti, e Puoti era concittadino di tanti napoletani analfabeti. Tuttavia Manzoni e Puoti parlavano e scrivevano in italiano e si consideravano di nazionalità italiana. Mi sembra che questo rappresenti un incontestabile elemento unificante e smonti l'obiezione di partenza.
Com’è noto, Massimo D'Azeglio dichiarò: "L'Italia è fatta, ora bisogna fare gli Italiani".
Il significato di questa affermazione è evidente e si ricollega con quanto detto finora: secondo D’Azeglio bisognava portare a tutti gli italiani, di ogni classe sociale, la consapevolezza e la conoscenza che i più fortunati avevano già da secoli. Mi sembra chiaro che D’Azeglio intendesse dire questo, e non vedo come si possa fraintenderlo. Eppure, secondo alcuni, D’Azeglio intendeva dire che gli italiani non esistevano affatto! La dichiarazione di D’Azeglio così viene fraintesa e spacciata come dimostrazione del fatto che non esisteva una “popolazione italiana” e che si doveva crearla artificialmente: in breve, l’Italia non era una nazione ma solo un concetto inventato, una forzatura. Ma questa interpretazione non regge ed è smentita dagli innumerevoli fatti storici riportati nei capitoli precedenti.
Nel corso dei secoli innumerevoli personaggi riconobbero l’esistenza dell’Italia e degli italiani. Citiamo solo i più famosi, andando a ritroso nel tempo a partire dal 1840 circa (cioè ben prima dell’unità d’Italia) ed escludendo i casi “dubbi” (per esempio è naturale supporre che Galileo, Michelangelo o Leonardo sapessero di essere italiani, ma non lo dissero esplicitamente). Manzoni, Liszt, Mendelssohn-Bartholdy, Schopenhauer, Emerson, Stendhal, Leopardi, Rossini, Hegel, Murat, Napoleone, Mozart, Foscolo, Alfieri, Goethe, Goldoni, Montesquieu, Vico, Campanella, Guicciardini, Carlo V, Fieramosca, Machiavelli, Boiardo, Sannazzaro, Boccaccio, Petrarca, Dante, Federico II di Svevia, Federico Barbarossa, Cimabue, Ottone II di Sassonia, Ottone I, Carlo Magno, Giustiniano, Teodorico, Odoacre, Diocleziano, Plinio il Giovane, Plinio il Vecchio, Cesare Ottaviano Augusto, Strabone, Virgilio, Cicerone, Giulio Cesare, Silla, Catone il Censore, Pitagora... E’ possibile che tutti questi personaggi si siano sbagliati? Tutti quanti?! Se costoro erano dei cretini, allora D'Azeglio doveva essere perfino schizofrenico, poiché da una parte credeva che gli italiani non esistessero ancora (cioè si dovessero "fare"), ma dall'altra scriveva (e dipingeva) la Disfida di Barletta (v. punto 124), descrivendo la specifica nazionalità italiana di Ettore Fieramosca da Capua e di Fanfulla da Lodi e distinguendola da quella dei cavalieri francesi e spagnoli. In realtà D'Azeglio era capace di distinguere un italiano perfino da uno spagnolo, perciò come poteva credere che gli italiani non esistessero?
In realtà chi vuole negare che l’Italia abbia una solida tradizione bimillenaria, può aggrapparsi a ben pochi appigli, talmente pochi che possiamo riassumerli rapidamente: anzitutto la solita frase di Metternich, “L’Italia è un’espressione geografica” (punto 143); poi il fraintendimento della famosa frase di D'Azeglio, "L'Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani"; il fallimento di Murat, di Pisacane ed altri episodi infelici del Risorgimento (che si spiegano facilmente con l’ignoranza delle classi popolari); il brigantaggio in alcune zone del Sud come presunta reazione all’unità d’Italia (ma questo fenomeno esisteva già un secolo prima); e la convinzione che i Mille di Garibaldi fossero tutti settentrionali (che non corrisponde a verità, v. punto 146). In breve, si tratta di pochi fatti, alcuni falsi ed altri inessenziali e contingenti, che risultano insignificanti se collocati nel quadro generale degli avvenimenti.
In definitiva, questo genere di argomentazioni non potrà mai mettere seriamente in dubbio la consistenza dell’antica tradizione d’Italia, che è confermata da una mole impressionante di fatti storici. Coloro che insistono a negare questo, mettono in bella mostra solo la loro ignoranza o la loro ottusità. Gian Rinaldo Carli (v. punto 186) ben li descrisse già nel 1765, definendoli: "quelli a' quali manca la facoltà di penetrare al di là del confine delle apparenze".
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